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La forza che nasce dal dolore e dall’amore
Lara Bettinzoli, N. 8/9 agosto/settembre 2010
Speranza, fiducia, coraggio, amore, sono gli elementi fondamentali per diventare un soldato anti tumore.
Ce lo insegna Giacomo, un ragazzo di soli 23 anni, che ha lottato disperatamente e con tutte le sue forze contro un linfoma di Hodgkin. Ora racconta la sua battaglia, o meglio, la sua odissea, durata due anni e mezzo, in un libro pubblicato da Mondadori “La formula chimica del dolore”.
Giacomo ci racconta la sua storia, attraverso l’aneddoto dell’elefante e dei cinque ciechi.
Un elefante e cinque ciechi, ovvero, una storia sbagliata
In una vecchia storia indiana, un saggio chiede a cinque ciechi di descrivere un elefante. Il primo si avvicina all’animale e toccandogli le gambe esclama: “l’elefante è come un tempio e queste sono le colonne”. Il secondo palpa la proboscide e dice che l’elefante è come un serpente. Il terzo cieco accarezza la pancia del pachiderma e afferma che l’elefante è come una montagna. Il quarto tocca un orecchio e sostiene che l’elefante sia come un ventaglio. L’ultimo cieco, annaspando, gli tira la coda e dice: “l’elefante è come una frusta!”.
Ogni definizione, a ben vedere, ha qualcosa di giusto. Ma l’elefante non viene mai fuori per quel che è davvero. Pensando a questo aneddoto, mi torna in mente l’espressione sicura di sé del cardiologo che mi visitò, qualche mese prima di scoprire la mia malattia: avevo già girato decine di ambulatori e alla fine ero approdato da lui. Ricordo che fu un colloquio stringato, della durata di circa dieci minuti, in cui attraverso poche domande era riuscito a formulare una diagnosi ben argomentata. Dal suo punto di vista, confermato dall’elettrocardiogramma nuovo fiammante, le tachicardie che mi perseguitavano da ormai sette mesi non erano affatto dovute al mio carattere ipersensibile, ma a qualcosa che lui chiamava “effe-a”.
Tirai un lungo sospiro di sollievo. Ero proprio felice perché finalmente era stata scoperta la vera causa di quel disturbo al cuore, che altri medici avevano imputato al mio animo sensibile: sì, era stato proprio un piacere scoprire che non ero un ennesimo candidato all’uso di potenti calmanti o psicofarmaci. Quando uscii dall’ambulatorio del cardiologo mi sentii proprio “rincuorato”.
Qualche mese dopo mi trovavo finalmente disteso sul tavolo operatorio, circondato da macchinari avveniristici, quattro schermi ultrapiatti e una decina di dottori, pronti a eliminare il disturbo che mi aveva fatto galoppare il cuore a duecentoquaranta battiti al minuto per così tanti mesi: i primi, passati credendo di essere uno psicopatico; gli ultimi tre, sentendomi un anziano cardiopatico di vent’anni. E tuttavia, le sonde che i miei dottori avevano infilato attraverso le mie vene principali, facendole strisciare all’interno del mio torace come lunghi serpenti – fu una sensazione davvero spiacevole, direi viscida -, quelle sonde che dovevano arrivare all’interno del cuore e operarlo da lì, a certo un punto arrestarono la loro marcia. I medici le spingevano, ma i serpenti proprio non ne volevano sapere di andar avanti. Il chirurgo fu costretto a sospendere l’intervento.
Nelle immagini della TAC che feci il giorno dopo compariva lo spettacolo di un’enorme massa tumorale, del diametro di circa dodici centimetri, che schiacciava l’atrio sinistro del cuore e il pericardio, ormai sottili quanto una lamina quasi invisibile. Era circa un anno che una pietra granitica sbocciata nel mio petto e cresciuta a ritmi rampicanti e vertiginosi comprimeva cuore e polmoni, causando le tachicardie e la mia tosse costante, ma nessuno dei numerosi medici cui mi rivolgevo se n’era mai accorto.
Diagnosi sbagliate
Per le sudorazioni notturne, suggerivano di togliere il piumone dal letto; per i pruriti, di evitare maglioni di fibre tessili cui probabilmente ero allergico; per le febbri, di coprirsi bene prima d’uscire in modo da non incorrere in virus influenzali; per i linfonodi, di non vivere in ansia per gli esami universitari, perché si sa che lo stress gioca brutti scherzi; per le tachicardie, di tapparsi il naso con le dita e soffiare forte, forte, più forte che puoi, Giacomo, così, vedi?
Una medicina “muta”
E così si torna dritti all’aneddoto sull’elefante: ma perché alcuni medici, visitandoti, commettono errori così grossolani, come scambiare la pancia di un pachiderma per una montagna, la sua coda per una frusta, la sua gamba per una colonna? Perché insomma la medicina, a volte, è cieca?
La risposta potrebbe essere che, quando ci si focalizza su un particolare di un dipinto, si perde di vista la bellezza del quadro d’insieme: per il naso l’otorino, per la pelle il dermatologo, per il raffreddore il virologo. Ma sono convinto che la risposta vera non sia questa, o non soltanto. In fondo, quando venni trasferito in oncologia, era confortante disporre di un’equipe di medici specializzati in ambiti così diversi e concentrati, ognuno a suo modo, su di me. La vera risposta è che spesso la medicina, ancor più che essere cieca, spesso è muta
L’importanza della comunicazione medico-paziente
Due persone che parlano sono come due pianeti diversi che tentano di trasmettersi le proprie comunicazioni: spesso, nel passaggio dall’uno all’altro, le parole subiscono deviazioni e ingorghi che le trasformano in suoni enigmatici. Inutile dire che quando ero ricoverato in ospedale, certi scherzetti linguistici e certe astruserie pronunciate dalla corte dei medici radunata intorno al mio letto, mi facevano passare notti insonni su Wikipedia o nei gruppi di Facebook dedicati ai linfomi. Scroccavo la rete wireless dell’ospedale per connettermi a internet e decifrare i termini che non avevo capito e di cui, sentendomi un po’ ignorante, non avevo il coraggio di chiedere il significato. Ma che cavolo vuol dire “iperpiressi cripto genica”? Non è nient’altro che una banale febbriciattola. Se l’ospedale è il regno dello star male, gli ambulatori sono le contee degli equivoci più grotteschi. Una volta il mio oncologo mi rincorse per il corridoio sventolando un referto, con gli occhi che gli brillavano: diceva che l’esame PET – quello che rivela la presenza di pepite tumorali nel corpo – era negativo. Negativo? Ma allora perché diavolo rideva? Il dottore capì e specificò che, in parole povere, la lampadina che avevo dentro al petto si era spenta, e di Gigetto – così avevo chiamato il mio cancro - rimaneva solo il cadavere stecchito. Tirai fuori dal mio frigo-bar portatile una bottiglia di coca cola, la stappai come se si fosse trattato di champagne, e…
E questo aneddoto la dice lunga su come il linguaggio della medicina – ma non solo il linguaggio - si concentri sulla malattia, e non sull’ammalato: l’esame è negativo per il cancro, non certo per me. Ma chi si cura, su chi ci si concentra: sul paziente, o sulla malattia? E, fra le altre cose, cos’è la pressione? Che roba sono i globuli bianchi? Insetti invisibili, cellule perlacee, orribili mostriciattoli covati dalla spina dorsale e sparpagliati nel sangue come pidocchi?
Quando recidivai, il mio oncologo disse che bisognava iniziare subito una terapia di salvataggio: solo sentire quest’ultima parola mi fece quasi vomitare dalla paura. Salvataggio? Ma uno viene salvato quando è messo proprio male, quando annega nel mare e gli lanciano il salvagente, o quando sta sotto le macerie per un terremoto! Devo proprio essere ridotto malaccio, no? In realtà, “terapia di salvataggio” è la traduzione letterale di “savage therapy”, che in inglese è banalmente la seconda opzione di farmaci da utilizzare, se la prima linea non ha funzionato. Ero convinto che nel caso non avessi risposto alla terapia di salvataggio, non avrei avuto più speranza come uno che non arriva ad afferrare il salvagente: e invece, grazie a Dio, esistono decine e decine di potentissimi farmaci chemioterapici, per cui non si è mai senza speranza e c’è sempre una pozione nuova da testare.
Parole come lame affilate
Ogni affermazione dei medici è capace di suscitare conseguenze inimmaginabili nelle fantasie dei loro pazienti. A volte le paure, le ansie, o le delusioni, possano agire sinergicamente con il farmaco e aumentarne gli effetti collaterali: la notte in cui mi risvegliai in una pozzanghera di vomito, dopo l’assunzione dell’Endoxan ad alto dosaggio – fu una dose da ippopotamo, 14 grammi centellinati in sei ore – potrei essere stato suggestionato dall’ammonimento di un giovanissimo oncologo che scherzosamente mi aveva avvertito di “non mangiar troppo, perché questo farmaco ha un secondo nome: “l’esorcista”. Rimetterai anche l’anima”. Fu una battuta, certo. E io feci persino finta di ridere.
Di sicuro non ho letto sul Corriere della Sera – troppo “infetto” per essere introdotto in camera sterile – che le proprietà immunosoppressive della ciclofosfamide sono state scoperte quando a Bari, durante la seconda guerra mondiale, l’aviazione tedesca affondò una nave che era carica di armi chimiche usate come mezzo di tortura, proibite da tutti i trattati internazionali. Fra queste, un liquido che i marinai chiamavano moustard-gas, perché puzzava tremendamente di mostarda: il precursore del primo farmaco chemioterapico. I marinai che sopravvissero al naufragio morirono pochi giorni dopo per un inspiegabile arresto di produzione delle cellule del sangue (navigando su internet, scoprii che Churchill ne fu così imbarazzato che impose l’assoluto segreto sulla faccenda, e nei referti medici fece scrivere che i marinai erano morti per ustioni).
Una radioterapista, un giorno, precisò che lei non voleva affatto assumersi la responsabilità dell’irradiazione: “Forse la mia superiore non si è resa conto che così sta mettendo la tua vita a rischio”, mi disse. Sicché mentre la ragna inceneriva Gigetto, io credevo di abbrustolire insieme a lui.
Ripensare a questi episodi mi fa venire da ridere. Sono indubbiamente casi estremi: non hanno nulla a che vedere con la prassi quotidiana di medici straordinariamente capaci di esprimersi nel modo più appropriato e umano. Ciononostante questi esempi dimostrano che le parole, a volte, sono lame affilate: scorticano, modellano, turbano, rendono folli o, almeno, nauseabondi. Guariscono o uccidono sul colpo. Come le pietre, ti possono lapidare lo spirito. Come le carezze, te lo possono consolare.
Fiducia nei propri medici
Il medico è in ospedale ciò che la divinità è nel tempio. Da lui implori il miracolo, e alle sue labbra ti aggrappi come a una corda che ti è stata lanciata per non cadere nel baratro. Se ti chiede un sacrificio immane, sei disposto a compierlo. Dipendi dai suoi sospiri e dalla sua mimica facciale come se fosse un oracolo: è come se, facendo ipotesi sul futuro, in qualche modo potesse mutarlo. Sono sicuro al cento per cento che il carattere del medico può produrre nel paziente un effetto pari o superiore a quello di tutti i rimedi impiegati. C’è, nel fidarsi di lui, qualcosa di consolante che è di grande aiuto. Come il pregare.
Proprio per questo i medici, mentre preparano e dosano i farmaci, non dovrebbero dimenticarsi che oltre a quelli possono infondere nelle vene del paziente un altro elisir di lunga vita: la speranza.
Speranza di guarire
La prima cosa di cui ha bisogno un ammalato è un poco di speranza. Poi viene il resto. Nemmeno mia madre o mio fratello potevano ispirare nel mio cuore una speranza di qualità paragonabile a quella che mi dava il mio oncologo: questo perché lui era l’unica autorità attendibile e, di conseguenza, credibile. Un valido medico che non capisce tutto questo è come un violino pregiato senza una corda: stridulo.
Quando si va in guerra contro il cancro è meglio affidarsi a comandanti-medici capaci di prendere decisioni difficili, talvolta dure, ma capaci anche di fare un discorso per tenere alto l’umore della truppa: un discorso che spieghi che quella è una guerra ingiusta, che loro non hanno provocato, che loro non si sono meritati.
Non si tratta di trasformarsi da oncologi ad amici o psicologi: si tratta soltanto di… vedere l’elefante, non la gamba-colonna, o il ventaglio-orecchio; di ascoltare ciò che il paziente ha da dire, e poi ciò che la macchina ha da segnalare. Si tratta, in definitiva, di fare squadra per diventare un vero esercito: un discorso accorato e accurato fra medico e paziente possono realmente produrre quella bomba che serve a distruggere il nemico-cancro. E di questi discorsi, di queste bombe, io ho avuto un bisogno viscerale. Direi che sono più salvifici di qualunque chemioterapia. La vita è una guerra, purtroppo. A volte la perdiamo, purtroppo. Abbiamo bisogno della voce dei medici, non soltanto delle loro soluzioni: una voce personalizzata e sempre nuova perché ognuno di noi ammala in modo personalizzato, sempre nuovo, e quindi irripetibile.
L’insegnamento della malattia
L’insegnamento più grande che io abbia ricevuto dai miei compagni di guerra e dai miei medici, è che il tumore non è un evento scientifico, ma un evento umano che impegna l’anima e ammala i pensieri; che gli uomini veri non sono i grandi avventurieri o i supereroi dai poteri eccezionali, ma sono semplicemente… gli uomini: e in quanto uomini, hanno una bellezza innata anche nei loro difetti. In quanto uomini, in un certo senso, sono sempre poetici. Il dolore mi ha insegnato che la vita è bella anche quando è brutta. Anche nei momenti più bui e più ingiusti, la vita è bella. Essere nati è un miracolo, poter vivere è un regalo, e poter sopravvivere, un’occasione. Anche se talvolta si tratta di un compito difficile o, a tratti, faticoso. Ognuno di noi è unico e dunque irripetibile, perché siamo riusciti a essere concepiti, a nascere, a vivere e a sopravvivere, sbaragliando gli altri ottanta milioni di spermatozoi che avrebbero potuto sbattere più velocemente la loro codina, scalciare e sgomitare più in fretta di noi per rubarci l’ovulo, la nostra crociera silenziosa verso la Vita.
Giacomo Cardaci, classe 1986, è nato a Udine e vive a Milano da diversi anni. Nel 2008 aveva pubblicato, per Mondadori, «Alligatori al Parini». Dopo aver frequentato il liceo Parini si è iscritto alla facoltà di Giurisprudenza. Con i suoi racconti ha vinto numerosi premi letterari, fra cui il Chiara Giovani e il Tondelli. Di recente Giacomo ha pubblicato un nuovo volume, sempre per Mondadori: «La formula chimica del dolore». Un libro dove il protagonista – Filippo – racconta l’esperienza traumatica di una grave malattia (un tumore) e delle conseguenti “traversie” vissute in ospedale.
La pazienza è la principale virtù di cui deve armarsi chiunque si ammala e deve curarsi, mettersi in lista per le visite, attendere i risultati degli esami, le prognosi dei medici, l’effetto delle medicine, sopportare i compagni di corsia – chiunque deve sperare e lottare per guarire. Pazienza: ce ne vuole ancora di più se la malattia, con tutta la sua ingiustizia e assurdità, ti colpisce quando sei nel fiore dell’età più impaziente di tutte, la giovinezza affamata di vita e di futuro. Come l’autore di questo libro, così Filippo, il suo protagonista, si trova a fare i conti con un male temuto a tal punto che spesso non si osa nemmeno pronunciarne il nome, come per una colpa inconfessabile: il tumore. Inizia così la sua odissea attraverso uno dei luoghi più kafkiani dei nostri tempi, l’ospedale. Pur senza smettere per un momento di interrogarsi sulle ragioni del dolore che lo colpisce, Filippo ci racconta la propria guerra contro la malattia con tutta la freschezza della sua giovane età. E dà voce alla folla silenziosa dei tanti pazienti che riempiono loro malgrado quella “prigione degli innocenti” che è l’ospedale, dove si viene rinchiusi senza avere commesso alcun delitto. Conosceremo così Wu, il cinese che appena può scappa a fumare in giardino; Enea, il più fifone di tutti nonostante il nome che porta, accudito dalla moglie e dall’amante brasiliana che s’incontrano e scontrano al suo capezzale; e poi Matilde, la professoressa che litiga con la sua parrucca; don Ettore, che prova a parlare di speranza, e le infermiere Nelba e Soledad, che dal Sud del mondo portano il sole in corsia. E poi ancora Giorgio, un vero grande amico, e tanti, tanti altri… perché l’ospedale è il luogo dove gli uomini vengono quotidianamente rivelati a se stessi nella loro essenza, nelle loro paure e nei loro egoismi, ma anche nella loro irripetibile bellezza. Un libro che, fuori da ogni retorica, ci regala una grande verità: la vita è un dono prezioso e vale la pena di viverla fino in fondo … anche quando si presenta piena di difficoltà e sofferenze.
I linfomi
Con il termine generico linfomi si indica un gruppo eterogeneo di tumori che hanno origine dai linfociti, le principali cellule del sistema immunitario. Gli organi maggiormente interessati dal processo linfomatoso sono in genere i linfonodi. Da questi la malattia può diffondersi attraverso il sanguee e/o i vasi linfatici ad altri linfonodi od organi, sia linfatici (midollo, milza etc) o extralinfatici (cute, polmoni, sistema nervoso centrale, stomaco, fegato, etc). I linfociti, infatti anche se si formano e maturano negli organi linfatici, hanno il compito fisiologico di circolare nel sangue e in tutti gli altri organi del corpo alla ricerca di antigeni estranei da eliminare. I linfociti tumorali non perdono in genere questa capacità di circolare nel corpo, anche se spesso perdono le loro funzioni, diffondendo così la malattia a distanza dal luogo d’origine.
Tipi di linfomi
Esistono due grandi categorie di linfomi, ciascuna suddivisa in sottogruppi: i linfomi di Hodgkin, con prognosi più favorevole e i linfomi non Hodgkin, più aggressivi:
Linfomi Hodgkin: sono caratterizzati dalla presenza delle cellule di Reed-Sternberg e prendono il nome dal medico che, nel 1832, descrisse i primi casi della malattia. I trattamenti convenzionali sono in grado di guarire oltre il 70% dei linfomi di Hodgkin in fase avanzata e una percentuale maggiore delle forme circoscritte.
Linfomi non Hodgkin: è il gruppo più numeroso e in base alla classificazione R.E.A.L. (Revised European American Lymphoma Classsification), comprendono oltre 20 varietà, distinte per aspetto morfologico, sintomatologia clinica, aggressività e sensibilità alle attuali terapie. Queste distinzioni, sono importanti poiché per ognuna è oggi possibile ipotizzare forme di terapia mirata. Un’altra suddivisione clinica dei linfomi non Hodgkin, prevede un accorpamento di tutte le diverse varietà di linfoma non Hodgkin in due gruppi principali: indolenti ed aggressivi a seconda dell’andamento della malattia.
Linfomi non Hodgkin indolenti: sono soprattutto malattie dell’età avanzata, caratterizzate da un andamento clinico lento ma inarrestabilmente progressivo, come il linfoma follicolare. Sono forme difficili a guarire, ma compatibili con una lunga sopravvivenza.
Linfomi non Hodgkin aggressivi: sono linfomi a rapida progressione. In assenza di terapie efficaci, queste malattie diventano mortali ne giro di pochi mesi (in alcuni casi di settimane).
Da dove deriva la denominazione “malattia di Hodgkin”?
La denominazione “malattia di Hodgkin”” viene usata per la prima volta nel 1856 da sir Samuel Wilks, che riconosce così l’importanza degli studi condotti da Thomas Hodgkin, colui che la identificò come una neoplasia. In precedenza, infatti, questa malattia veniva genericamente considerata un’”infiammazione” delle ghiandole linfatiche ossia dei linfonodi.
Attenzione a questi sintomi
Il sintomo più comune dei linfomi è l’ingrossamento di uno o più linfonodi superficiali nella regione del collo, delle ascelle e dell’inguine. In genere questi linfonodi ingrossati non sono dolenti. Possono comunque verificarsi anche febbre, astenia, sudorazione notturna, senso di stanchezza, perdita di peso, prurito, arrossamenti cutanei. Sono tutti sintomi assolutamente atipici, che il più delle volte dipendono da malattie di natura infettiva o infiammatoria. E’ comunque opportuno riferire subito al medico la comparsa di questi sintomi, senza sottovalutarli.
Quale fascia di popolazione è maggiormente a rischio?
Ogni anno in Italia circa 3000 persone contraggono il linfoma di Hodgkin, mentre il linfoma non Hodgkin colpisce 11mila persone in particolare anziani. Il linfoma di Hodgkin (LH) è un tumore relativamente raro, ma la sua incidenza è in aumento. Rappresenta il 30-40 per cento di tutti i linfomi maligni. Sono considerati più a rischio di malattia i giovani fra 20 e 30 anni e gli anziani con età superiore a 70 anni, ma esistono casi anche nell’infanzia. I linfomi non Hodgkin sono un gruppo eterogeneo di tumori, che può derivare dalle ghiandole linfatiche, ma anche al di fuori di esse; nel 30 per cento dei casi, infatti, questa malattia può insorgere in organi quali stomaco, intestino, cute e sistema nervoso centrale.
Sono tumori tipici dell’età adulta: la possibilità di ammalarsi aumenta con l’età e arriva quasi a una frequenza di 1 su 1.000 nelle persone con età superiore ai 70 anni. Esistono comunque casi in età pediatrica e giovanile. L’incidenza è in aumento in varie parti del mondo, in seguito ai progressi diagnostici e alla diffusione dell’Aids, che è una causa importante di linfoma non Hodgkin
L’associazione: l’AIL
L’AIL, Associazione Italiana contro la leucemia, è un associazione no profit che promuove lo sviluppo e la diffusione delle ricerche scientifiche sulle leucemie, sui linfomi ed altre malattie del sangue. Finanzia inoltre servizi e assistenza socio-sanitariain favore di emmpipatici e delle loro fomiglie. L’AIL ha sede in tutte le principali città italiane. E’possibile recuperarne gli indirizzi e i riferimenti telefonici dall’elenco telefonico oppure telefonando alla sede nazionale: via Ravenna 34, Roma, tel. 06/4403763; numero verde 800-226524.
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