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Un farmaco biologico “affama” il tumore al seno

Cristina Mazzantini, N. 6/7 giugno/luglio 2010

La terapia intelligente accompagnata alla chemioterapia consente di raddoppiare il tempo di sopravvivenza senza progressione nel tumore al seno in stadio avanzato. Come? Agisce bloccando i “rifornimenti” alla malattia. In pratica le taglia i viveri e quindi la “uccide”. Si tratta nel caso particolare di bevacizumab, un anticorpo monoclonale che agisce in una maniera specifica sulla proteina VEGF (acronimo inglese per fattore di crescita vascolare), elemento chiave dell’angiogenesi tumorale, il meccanismo che regola la crescita e la proliferazione del cancro. Proprio a questo tema è stato dedicato il convegno nazionale “Dalla chemioterapia alla terapia anti angiogenica”, che si è recentemente tenuto a Sorrento, dove i maggiori ricercatori ed esperti italiani hanno fatto il punto sugli avanzamenti della ricerca nella lotta contro la neoplasia della mammella.
«L’inibizione dell’angiogenesi, ovvero il blocco dei meccanismi che consentono al tumore di diffondersi nell’organismo, è un’importante scelta terapeutica per le pazienti con cancro del seno in stadio avanzato, che oggi hanno una nuova arma mirata per affrontare la loro malattia», ha precisato il professor Sabino De Placido, Ordinario di Oncologia medica dell’Università “Federico II” di Napoli e presidente del convegno.
«Oggi, fortunatamente, si dispone di terapie mirate più rispettose del paziente piuttosto che della sola chemioterapia», ha precisato il professor Carmelo Iacono, presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM). «La ricerca, infatti, cura la persona nel suo complesso e non solo la malattia. Si tratta, dunque, di terapie efficaci che consentono di ottenere maggiore sopravvivenza anche nel caso di metastasi, meno effetti collaterali e migliore qualità di vita delle pazienti con neoplasia».
Le stime effettuate su dati reali osservati dai Registri Tumori, parlano per il 2008 di 37.952 donne colpite da tumore della mammella, che risulta così essere il secondo carcinoma più diffuso e ancora purtroppo il primo per mortalità nel sesso femminile sotto i 55 anni.
L’avvento delle terapie target, unito alla diffusione degli screening e al miglioramento delle tecnologie per la diagnosi, sta modificando lo scenario di questa patologia. Tra i protagonisti della ‘rivoluzione’  ricordiamo gli anticorpi monoclonali, farmaci innovati che hanno la capacità di colpire con precisione  le cellule malate, senza danneggiare quelle sane. Il trastuzumab, un altro anticorpo monoclonale, è utilizzato sia nelle fasi avanzate che in quelle precoci di un particolare tipo di tumore al seno (detto HER2), si affianca un altro farmaco, bevacizumab, che ha dimostrato rilevanti benefici nelle forme avanzate della malattia. Bisogna sottolineare che circa il 25-30 percento delle pazienti colpite da tumore della mammella, in particolari donne giovani tra i 30 e i 35 anni d’età le cellule cancerose portano sulla loro superficie il recettore Human Epidermal Receptor 2 (HER2). Si capisce  l’importanza dell’utilizzo di tale molecola.
Inoltre il bevacizumab lega e blocca in maniera specifica la proteina VEGF, fattore chiave nell’angiogenesi tumorale, in pratica nel processo di crescita e proliferazione del tumore. Il VEGF stimola la crescita, la sopravvivenza e la costruzione di nuovi vasi sanguigni; i tumori rilasciano questa proteina per circondarsi di nuovi vasi e ricevere così nutrienti e ossigeno per proliferare e diffondersi ad altri organi, cioè andare in metastasi.
«Prove incontrovertibili e studi recenti al top della qualità portano a concludere che il bevacizumab prolunga di circa il doppio del tempo senza progressione del tumore, in pratica rallenta la sua proliferazione», ha puntualizzato ancora il professor De Placido. «Le applicazioni cliniche del bevacizumab nel tumore della mammella sono finora nel trattamento del tumore in stadio avanzato, ma stiamo compiendo studi nella neoplasia precoce, quella che può essere curata anche con la terapia adiuvante. Tali trail però non sono ancora arrivati a conclusioni definitive».
«Il problema clinico è diventato oggi l’appropriatezza, ovvero un maggiore rigore metodologico nella valutazione degli interventi terapeutici», ha  aggiunto il professor Iacono, «ma bisogna ricordare che l’appropriatezza è anche un diritto del paziente, quello di ricevere la maggiore cura possibile in qualunque oncologia del Paese ci si trovi a essere curati. Sono questi gli impegni che noi, come Associazione Italiana di Oncologia Medica, ci siamo presi contribuendo con le Istituzioni sanitarie, AIFA (l’Agenzia Italiana Unica per il Farmaco) e il Ministero della Salute, che hanno riconosciuto l’AIOM quale interlocutore privilegiato nella gestione oculata e razionale delle risorse e degli interventi».
«Bevacizumab è oggetto del più gran programma mondiale di trail clinici mai realizzato in oncologia, con oltre 300 studi clinici e 350.000 pazienti coinvolti per indagare le potenzialità in oltre 20 tipi di tumori. La casa farmaceutica Roche ha cambiato il modo in cui oggi sono trattati i tumori, sviluppando terapie oncologiche che rappresentano progressi terapeutici importanti, aiutando i pazienti affetti da neoplasia a vivere più a lungo, a mantenere buona la loro qualità di vita e in alcuni casi ad arrivare alla guarigione», ha concluso il dottor Antonio Del Santo, Group Leader Onco-Haematology di Roche S.p.A.

Tumore della mammella in cifre
A Sorrento sono stati forniti i numeri più recenti sul cancro della mammella. Questi è il secondo tumore più diffuso in Italia se si considera la popolazione generale senza distinzione tra maschi e femmine. Ed è anche il cancro più diffuso nelle donne: circa il 10 percento.

Incidenza:

  • Nel mondo sono diagnosticati ogni anno più di un milione di nuovi casi di tumore al seno
  • In Italia si registrano circa 38mila nuovi casi
  • In Campania si registrano più di 3mila nuovi casi.

Mortalità:

  • In Italia tale neoplasia è responsabile di circa 8mila decessi l’anno.
  • In Campania è responsabile di circa 800 morti l’anno.
  • Nel mondo rappresenta la prima causa di morte per cancro nelle donne con meno di 55 anni d’età  e si registrano oltre mezzo milione di decessi.

Prevalenza:

  • In Italia vi sono oltre  450 mila donne che convivono con il tumore della mammella.
  • in Campania sono oltre 28 mila donne che convivono con il tumore al seno.

Angiogenesi e anticorpi monoclonali meccanismo d’azione nei tumori
L’angiogenesi interviene nei processi come la cicatrizzazione delle ferite e lo sviluppo dell’embrione. Nell’angiogenesi il VEGF (fattore di crescita endoteliale vascolare) stimola la crescita, la sopravvivenza e la ricostruzione dei vasi sanguigni.
Il VEGF è l’elemento chiave dell’angiogenesi dei tumori, processo fondamentale per sviluppare e conservare i vasi sanguigni di cui la neoplasia ha bisogno per proliferare e diffondersi ad altre regioni del corpo ( ovvero metastatizzare). I tumori rilasciano il VEGF per dare il via alla crescita di nuovi vasi verso la massa neoplastica consentendole di ricevere nutrienti e ossigeno. La proliferazione di nuovi vasi sanguigni avente origine dal tumore è detta: angiogenesi.
Gli anticorpi monoclonali diretti contro VEGF agiscono inibendo l’angiogenesi, cioè il processo di formazione di un nuovo network sanguigno che alimenta il tumore. I meccanismi d’azione riconosciuti degli anticorpi monoclonali sono almeno di tre tipi:

  • Regressione dei vasi sanguigni. Gli anti-angiogenici provocano la regressione dei piccoli vasi sanguigni attorno al tumore per arrestare l’apporto d’ossigeno e di nutrienti di cui il cancro ha bisogno.
  • “Normalizzazione”dei vasi sanguigni esistenti.
    Gli anti-angiogenici possono normalizzare la vascolarizzazione caotica del tumore, in modo da potenziare al massimo l’efficacia della strategia terapeutica complessiva.
  • Blocco della crescita di nuovi vasi sanguigni. Gli anti-angiogenici inibiscono la crescita di nuovi vasi sanguigni limitando ulteriormente l’apporto di sangue al tumore.

Nuova proposta del ministro Fazio: uno screening “a misura rischio” per il tumore al seno
La nuova proposta del ministro Ferruccio Fazio è quella di realizzare uno screening per il tumore al seno 'a misura di rischio'. Di che si tratta? Parliamo di una strategia che tenga conto dei fattori genetici, ambientali e famigliari per decidere quali esami di prevenzione fare e a partire da che età.
«Al Ministero abbiamo diviso la prevenzione in tre grandi filoni: la primaria, la secondaria e la terziaria», ha dichiarato il ministro Fazio a Milano in un convegno organizzato dalla Fondazione Bracco. «Per il tumore alla mammella, in particolare, stiamo proponendo strategie innovative e personalizzate secondo i fattori di rischio e dell'età». Ora, ha ricordato Fazio, «C'è un'unica strategia che è  quella di fare i controlli ogni due anni in una certa fascia di età». Quello che invece vorrebbe fare il Ministero è di scegliere gli esami da fare e l'età in cui iniziare in base ai fattori di rischio della donna: «Ci possono essere strategie che combinano non solo la mammografia, ma anche l'ecografia ed eventualmente la risonanza magnetica». Più  nel dettaglio, «Si può dividere ad esempio ciascuna donna in tre tipi di rischio: basso, medio e alto. Se il pericolo è elevato, con fattori di rischio genetici e familiari, si potrebbe fare una risonanza magnetica più un'ecografia a partire dai 30 anni, con controlli ogni anno. Se il rischio è intermedio, invece, potremmo programmare un'ecografia ogni anno dopo i 40 anni. Se il rischio è basso, infine, può esserci una mammografia ogni due anni, tra i 50 e i 75 anni. Tutto questo potrebbe portare a una riduzione dei falsi negativi - ha concluso il ministro - e a un'ulteriore riduzione della mortalità per questo tumore».

Cancro al seno e cellule staminali
Le cellule staminali non sono solo killer, ma sono anche in grado di determinare, in base al loro numero, la gravità della progressione del tumore al seno.
La scoperta è dei ricercatori italiani dell'Ifom-Ieo (Istituto europeo di oncologia di Milano). Gli studiosi sanno già da tempo che i vari tipi di tumore alla mammella presentano caratteristiche molto diverse, che ne influenzano l'aggressività, il decorso clinico, ed infine la prognosi. Ora un gruppo di ricercatori italiani, guidati da Pier Paolo Di Fiore e Pier Giuseppe Pelicci, ha scoperto che tal eterogeneità è riconducibile al differente contenuto in cellule staminali tumorali. La ricerca, pubblicata dalla rivista internazionale “Cell”,  ha dimostrato che non solo le cellule staminali del cancro sono le vere responsabili dell'insorgenza e del mantenimento dei tumori mammari, ma anche che il differente numero di cellule staminali in essi contenuto rappresenta l'elemento decisivo per spiegare la diversa aggressività dei vari tipi di tumore al seno. In particolare lo studio evidenzia che i casi più aggressivi sono quelli in cui il tessuto tumorale è più ricco di cellule staminali, anche se queste rappresentano una frazione esigua della massa tumorale.
E ancora, le cellule staminali sono le reali responsabili della nascita e dello sviluppo di un tumore, in quanto sono capaci di duplicarsi praticamente senza limiti. «Proprio queste cellule sostengono la crescita del tumore», spiega Di Fiore. « In modo simile a quanto accade per le cellule staminali normali nel fisiologico processo di generazione dei tessuti, le cellule staminali tumorali rappresentano la vera forza motrice in grado di promuovere e sostenere la proliferazione del tessuto tumorale». Queste cellule, purtroppo, sono anche in molti casi capaci di resistere alla chemioterapia ed alla radioterapia: da qui la loro pericolosità».

Papaya: il suo estratto aiuta a combattere il cancro
Un gruppo di ricercatori statunitensi dell’Università della Florida ha reso noto le proprietà benefiche della papaya. Il frutto tropicale pare che svolgerebbe un ruolo protettivo nei confronti dei tumori, rallentando la crescita delle cellule tossiche. I risultati di tali studi sono stati pubblicati di recente sulla rivista scientifica Journal of Ethnopharmacology.
Gli scienziati hanno testato gli  effetti  degli  estratti del frutto sulle cellule di tumori della cervice, fegato, pancreas, seno, polmoni e hanno verificato come in tutti questi singoli casi la sostanza derivante dal frutto tropicale sarebbe tossica per le cellule tumorali mentre neutra per le cellule sane. Stando ai risultati della ricerca, la papaya stimola la produzione di citochine th-1, ovvero una classe di molecole che giovano al sistema immunitario, aiutandolo a lavorare meglio.
L’esperimento è stato eseguito in vitro su 10 tumori  tramite una somministrazione alle cellule tumorali di un estratto di foglie essiccate e dopo 24 ore  tutti e 10 i tumori presi in esame avevano subito un rallentamento della crescita, ovvero le cellule malate hanno arrestato la loro incessante e celere moltiplicazione.
Della papaya erano fin ora note soltanto le proprietà anti invecchiamento, o i suoi effetti benefici contro la stanchezza cronica, ma adesso si scoprono le potenzialità per tentare di debellare uno dei mali più insidiosi: il tumore. Nam Dang, primo autore della ricerca, ha spiegato come l’estratto di papaya, peraltro non tossico, ha solo effetti benefici senza alcuna controindicazione

Ricerca e tossine vegetali per sconfiggere il cancro
Studiosi del gruppo di ricerca anglo-italiano, di cui fa parte anche l'Istituto di biologia e biotecnologia agraria del Consiglio nazionale delle ricerche (Ibba-Cnr) di Milano, utilizzando le tecniche del DNA ricombinante, hanno ottenuto l'espressione di molecole ibride che veicolano selettivamente l'attività tossica di saporina contro le cellule tumorali, uccidendole. I risultati sono stati illustrati su Faseb Journal, la rivista della Federazione americana di scienze sperimentali.
«Le molecole ibride sono state create unendo saporina, una tossina vegetale identificata in origine nei semi di Saponaria officinalis, a un frammento proteico che serve ad indirizzare la tossina verso le cellule tumorali», ha spiegato il professor Aldo Ceriotti, dell'Ibba-Cnr di Milano. «Quando la molecola ibrida entra nella cellula bersaglio, la sintesi delle proteine si arresta e la cellula viene così eliminata».
Lo sviluppo di un sistema di espressione in Pichia pastoris adatto per produrre proteine di fusione in cui saporina è indirizzata verso specifiche popolazioni cellulari, quali le tumorali, è oggetto di una richiesta di brevetto europeo.
«Questa tecnologia apre la possibilità di utilizzare i lieviti come bioreattori in larga scala per la produzione di questo tipo di molecole e permetterà di dare inizio a studi pre-clinici per confermarne l'efficacia terapeutica», ha concluso Ceriotti.

Attivo un numero verde per le malattie ematiche
È attivo il Numero Verde 800.550.9520 (tutti i martedì e i giovedì dalle 15 alle 18), promosso dalla SIE, la Società Italiana di Ematologia. Si tratta di un servizio di consulenza gratuita dedicato alle malattie del sangue già attivo in tutta Italia e realizzato con il supporto di Novartis.
Per avere informazioni e assistenza in campo ematologico, basta chiamare il Numero Verde, da telefono fisso o cellulare, per ottenere spiegazioni su sintomi, esami e terapie e sapere a chi rivolgersi, se non si è già seguiti presso una struttura ematologica.
Specialisti ematologi rispondono alle chiamate e forniscono informazioni generali sulle malattie ematologiche, un primo orientamento sulle strutture e sugli esami di laboratorio, e un supporto psicologico. Il Numero Verde non sostituisce, infatti, la visita dallo specialista e non surroga l’attività delle strutture sanitarie che hanno in cura il paziente, ma rappresenta un vero e proprio sportello informativo telefonico.
«Attivo da febbraio dello scorso anno, il Numero Verde ha risposto a centinaia di chiamate di pazienti e familiari di tutta Italia», afferma il professor Fabrizio Pane, Presidente della SIE, «offrendo un servizio fondamentale a tutte le persone coinvolte nella gestione delle malattie ematologiche, direttamente (i pazienti), o indirettamente (i familiari, gli operatori sanitari). Oggi le terapie disponibili consentono di intervenire con successo sulle malattie ematologiche ma è essenziale orientare il paziente verso l’appropriato percorso di diagnosi e cura, oltre che supportarlo psicologicamente. Grazie al Numero Verde si possono ottenere informazioni su sintomi, esami, terapie e sulle strutture sanitarie di interesse ematologico: un aiuto concreto per i pazienti e per chi se ne prende cura».

Un virus respiratorio uccide le cellule tumorali della prostata
Non solo non provoca molti danni (giusto una lieve infezione alle vie respiratorie e al massimo un po' di dissenteria) ma fa addirittura bene, perché è in grado di uccidere le cellule tumorali della prostata. È il "reovirus", protagonista di uno studio riportato sulla rivista Cancer Research dell'American Association for Cancer Research. Un gruppo di ricercatori Canadesi del Tom Baker Cancer Centre ha sperimentato l'uso del virus in oncologia, introducendolo con una singola iniezione sulla prostata di sei pazienti per i quali era stata già programmata l'asportazione chirurgica della parte di ghiandola invasa dal tumore. Tre settimane dopo il tessuto prostatico dei pazienti è stato rimosso e gli studi hanno dimostrato che conteneva meno cellule tumorali vive.
Per i ricercatori è evidente che il virus è stato capace di uccidere le cellule tumorali seguendo una tecnica ben precisa: il Reovirus ha una forte propensione a individuare le cellule bersaglio e perciò attacca solo le cellule tumorali, rompe la loro membrana fino a causarne lo scoppio e il conseguente rilascio di migliaia di particelle virali che vanno a uccidere altre cellule tumorali.

Tumori sempre più sotto controllo
Una nuova tecnica che si basa sul costruire un'impronta digitale a partire dal Dna è stata messa a puntoda un gruppo di ricercatori del Johns Hopkins Kimmel Cancer Center di Baltimora, nel Maryland (USA). Infatti Victor Velculescu e Rebecca Leary, insieme ai loro colleghi, cercando le alterazioni genetiche che si verificano nelle cellule tumorali, hanno scoperto dei biomarcatori altamente specifici che sarebbero in grado di evidenziare la presenza di masse cancerose che restano anche dopo il trattamento e potrebbero dare origine ad una nuova massa tumorale. Grazie ad un’analisi del sangue, dunque, si potrebbero individuare cellule cancerose prima che vengano osservate con la tecnica della scansione. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Science Translational Medicine.
La tecnica, nota come Personalised analysis of rearranged ends (Pare) è stata sviluppata esaminando sei pazienti con sei diversi tipi di tumori. Attraverso una biopsia, i ricercatori hanno ottenuto la sequenza genetica delle cellule tumorali individuando sempre una serie di riarrangiamenti specifici del materiale genetico. Prima di operare, asportando la massa tumorale, i pazienti avevano tutti alti livelli di cellule caratterizzate dalla mutazioni osservate dai ricercatori. Dopo l’intervento chirurgico i livelli si abbassavano.
Secondo gli autori dello studio, però, sono necessarie ulteriori ricerche per mettere definitivamente a punto la tecnica e cercare di applicarla a tutti i tipi di cancro.

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