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L’approccio olistico delle cure palliative

Paola Sarno, N. 5 maggio 2008

È stato ripreso dal refrain di una delle più intense canzoni di Battiato, “…ed io avrò cura di te”, il leit motif del convegno, dedicato agli “Aspetti multidisciplinari nell’assistenza al malato a prognosi severa”, che si è tenuto all’Istituto Superiore di Sanità a Roma e che ha visto al centro del dibattito le cure palliative come modo olistico e globale di assistere il paziente nella fase terminale delle malattie gravi, a partire, ovviamente, da quelle oncologiche.

Cosa dice la legge
Ad illustrare le varie tappe legislative che hanno portato anche in Italia un’attenzione maggiore verso la palliazione è stato il Dott. Marco Spizzichino, della Direzione della Programmazione Sanitaria del Ministero della Salute. "Innanzitutto", ha detto, "bisogna prendere in considerazione la legge 39/99, nata sotto la spinta fortissima delle associazioni di volontariato e no profit, che aveva il fine di creare strutture residenziali per malati neoplastici, prevedendo la realizzazione di almeno un hospice in ogni Regione. I finanziamenti, per la riconversione di strutture non utilizzate o utilizzate solo parzialmente, venivano ripartiti in funzione dei tassi di mortalità per neoplasia. Il conseguente decreto attuativo del 28 settembre 1999 stabiliva, oltre al fatto che il paziente dovesse essere seguito preferibilmente al proprio domicilio, anche l’importo dei finanziamenti, per un totale di oltre 206 milioni di euro. In 9 anni, tuttavia", ha evidenziato il Dott. Spizzichino, "solo il 75% dei finanziamenti è stato utilizzato dalle Regioni, che hanno negato di fatto assistenza a persone bisognose".
Successivamente, la Finanziaria 2006 aumentò il budget di spesa di altri 100 milioni di euro, ma con vincoli programmatori, primo fra tutti quello di attivare l’assistenza domiciliare per evitare la creazione di “case di morte”. L’art. 20 della stessa legge sull’edilizia sanitaria, inoltre, dedicava il 4,21 per cento dell’intero finanziamento agli hospice. "Con la Finanziaria 2007", ha aggiunto il Dott. Spizzichino, "sono stati stanziati altri 50 milioni di euro e si è inoltre provveduto a ripartirli meglio fra le Regioni". Non tutte, infatti, ne hanno bisogno (come per esempio la Lombardia, dove il rapporto fra posti letto e abitanti è già buono) ed è quindi necessario "indirizzarli non solo alla costruzione di nuove strutture ma anche all’acquisto di tecnologie e agli interventi territoriali". Per la prima volta poi, le cure palliative vengono estese anche alle malattie neurologiche croniche. Sulla scorta di questi interventi oggi in Italia sono attivi 188 hospice per un totale di 2025 posti letto, vale a dire 0,34 posti letto per ogni 10.000 abitanti. "Si tratta", ha affermato il Dott. Spizzichino, "di un dato soddisfacente purché si attivi l’assistenza domiciliare". Che sembra essere, invece, un nodo ancora decisamente dolente, così come quello delle cure palliative pediatriche, per le quali la rete deve ancora partire. Tuttavia, "la Finanziaria 2007 prevede che il 20% delle risorse, cioè 30 milioni di euro, destinate alle cure palliative nel complesso venga dedicato a quelle pediatriche che hanno una loro specificità". Purtroppo, allo stato attuale, nel nostro Paese esistono solo delle esperienze pilota in materia.
Fra le altre azioni normative citate da Spizzichino, c'è il Regolamento della fine del 2006 che definisce gli standard di monitoraggio per la rete di cure palliative con indicatori su: posti letto, liste d’attesa, requisiti minimi di qualità per l’accreditamento, ecc.
La Commissione Lea ha inoltre intrapreso un'azione per omogeneizzare le tariffe e le caratteristiche dell’assistenza domiciliare nelle diverse Regioni, per trovare una definizione condivisa per le “cure palliative”, per stabilirne i requisiti di qualità, i programmi di formazione, l’intensità e, quindi, i livelli assistenziali minimali sulle 24 ore. In questo documento si ribadisce che "gli hospice sono Lea (Livelli Essenziali di Assistenza) distrettuali, anche quando sono inseriti in strutture di ricovero ospedaliero e necessitano di personale sanitario dedicato".
Sempre alla fine del 2006, inoltre, il Ministro della Salute, Livia Turco, creò la Commissione Terapia del Dolore, Cure Palliative e Dignità della vita, che tra i risultati più importanti ottenuti annovera il Piano Nazionale di Cure Palliative, nato per assicurare in tutto il Paese questo tipo di assistenza, e l’attivazione di un Osservatorio nazionale permanente con un ruolo di monitoraggio.
A fronte di questi sforzi, il sistema mostra, tuttavia, ancora forti criticità, come ha scritto il ministro Turco, "per creare spazio vitale che prevenga la richiesta di morte". Il Dott. Spizzichino ha evidenziato al riguardo i processi di accreditamento, la formazione del personale medico ed infermieristico, l’istituzione stessa della disciplina, l’integrazione sociosanitaria, i finanziamenti per la ricerca, le campagne informative, e, infine, anche la sostenibilità economica e la continuità assistenziale.

Cure palliative: avvolgenti come un mantello
Il Dott. Giovanni Zaninetta, Direttore del primo hospice italiano, il “Domus Salutis” di Brescia, che in 20 anni ha assistito oltre 9000 pazienti, nonché presidente della Sicp, la Società Italiana di Cure Palliative, una società scientifica interprofessionale, ha tracciato la storia, il presente e il futuro di queste cure, partendo dalla definizione dell’Oms del 1990, che le definisce, appunto, “il prendersi cura attivo e globale del paziente la cui malattia non è più responsiva alle cure specifiche”. Il Dott. Zaninetta ha posto l’accento soprattutto sulla globalità delle cure che, se partono dal controllo del dolore e degli altri sintomi, devono prestare attenzione ai problemi psicologici, sociali e spirituali, proprio come se un mantello (pallium) avvolgesse l’ammalato.
Il Presidente della Sicp ha, inoltre, aggiunto che "va data attenzione anche ai familiari del malato per ridurre il rischio del lutto patologico che è un’altra delle “ombre lunghe” che la malattia a prognosi infausta porta con sé". Le cure palliative, quindi, non si esauriscono neppure con la morte dell’ammalato e devono, peraltro, iniziare molto presto; molto prima di quanto, di solito, succeda. "Anche la sola terapia del dolore non va somministrata esclusivamente nella fase terminale, ma anche durante la chemioterapia e la radioterapia per ridurre il peso degli effetti collaterali", ha affermato il Dott. Zaninetta. Il tutto va gestito da una équipe multidisciplinare che comprenda il geriatra, l’oncologo, il palliatore, l’infermiere, il fisioterapista, il farmacista, lo psicologo ed altri terapeuti (musico terapeuti, arte terapeuti), il cappellano, ecc. Tutti devono agire in sinergia in una molteplicità di setting assistenziali. Fra le varie tipologie, il Dott. Zaninetta ha citato anche quella del day hospice, una modalità assistenziale non ancora molto diffusa, che corrisponde a una sorta di centro diurno geriatrico.
"L’approccio", ha voluto ribadire il Dott. Zaninetta, "deve essere quello olistico, che non si adopera tanto per mettere il paziente al centro, come se fosse il pallone durante una partita di calcio, ma che imposta terapie guidate proprio dal paziente stesso, non tanto con modelli terapeutici preformati e generici, quanto con esperienze che tengano conto del vissuto individuale".

La situazione italiana
Gli utenti potenziali delle cure palliative in Italia sono circa 250 mila all’anno, dei quali 140 mila solo fra i pazienti oncologici. "Tuttavia, fino alla fine del 2006 erano funzionanti 105 hospice e per la fine del 2008 saranno presumibilmente attive 138 strutture. I posti letto da 1.229 diverranno 1.500. Ma, solo entro il 2010 si arriverà a quota 243 hospice, vale a dire al punto di equilibrio rispetto ai bisogni reali della popolazione", ha dichiarato il Dott. Zaninetta.
Si tratta insomma di un percorso non concluso, anche perché l’assistenza domiciliare è ancora un punto debole, sul quale solo ora si comincia a lavorare davvero. Altri nodi da sciogliere per il futuro, secondo il Presidente della Sicp, saranno: l’omogenizzazione dell’assistenza, la creazione di un percorso formativo specifico a livello accademico in cure palliative, la diffusione delle cure palliative anche negli ambiti non oncologici (neurologico e cardiorespiratorio), la creazione di un sistema di verifica della qualità delle cure. "Tutto ciò con un obiettivo in testa", ha concluso il Dott. Zaninetta, "quello di creare una rete integrata sul territorio".

L’hospice del Policlinico Gemelli di Roma
Si chiama “Villa Speranza” l’hospice oncologico del Policlinico A. Gemelli di Roma, dove lavora come primario la Dott.ssa Adriana Turriziani. E’ lei che cerca di rendere il centro attivo e pieno di vita per prolungare l’esistenza dei suoi ospiti fino alla fine e non gestire la struttura come un ghetto d’oro per chi deve morire. "Il malato dell’hospice è un paziente difficile, complesso, che ha una lunga storia di dolore e che ha viaggiato attraverso luoghi di cura diversi e che, perciò, impone soluzioni assistenziali diverse", ha specificato la Dott.ssa Turriziani. Una differenza che si ripercuote sull’organizzazione, che, anche in questo caso, ruota su un modello di assistenza multidimensionale, quello dell'“ospitalità assistita”: temporanea, per sostenere la famiglia in momenti di maggiore carico, o definitiva.
Fra le abilità dei medici che lavorano nell’hospice, il Primario di Villa Speranza ha sottolineato l’importanza della comunicazione, del controllo delle sindromi dolorose e dell’attenzione agli aspetti psicosociali. "Fondamentale poi", secondo la Dott.ssa Turriziani, "il dialogo fra ospedale e hospice, perché il paziente non arrivi a Villa Speranza troppo tardi e perché la mentalità degli hospice entri anche in ospedale". Fra i nuovi bisogni che stanno emergendo, il medico ne ha evidenziati due, fra loro connessi: la cronicizzazione del malato oncologico e la necessità quindi di assistenza durante l’intero percorso diagnostico-terapeutico.

L’ipnosi: una psicoterapia non convenzionale
Cittadina tedesca, ha lavorato a lungo in Germania e in Usa prima di arrivare in Italia, la Dott.ssa Ileana Duce, è psicologa e psicoterapeuta. Si occupa di ipnosi, una tecnica non molto diffusa nel nostro Paese. Ha scritto anche un libro “E se la mente guarisse il cancro”, in cui espone i risultati dei suoi studi. Durante il convegno ha parlato di esperienze anche personali, di suo marito, il medico Nicola Dell’Edera, guarito completamente da un linfoma non Hodgkin, proprio utilizzando a fianco delle terapie convenzionali i suoi metodi ancora non riconosciuti dalla medicina tradizionale in Italia. "In 25 anni di esperienza posso dire che in qualsiasi fase di una malattia che minaccia la vita si può lavorare con stati di mente modificati come la trance. Questi stati di alterazione sono caratterizzati da un alto livello di attenzione, di apertura alla ricezione dei messaggi, un basso livello di controllo, una forte interazione con il terapeuta, e offrono la possibilità di accedere a ricordi rimossi della vita del paziente". In questo modo è possibile mobilitare delle difese che il malato ha e che normalmente non usa e che, invece, permettono di migliore l’efficienza del sistema immunitario. "Oltretutto questo metodo", ha spiegato la Dott.ssa Duce, "stimola la capacità creativa del paziente, il suo impegno attivo, migliorandone indirettamente la qualità della vita". Si tratta insomma di aiutare l’organismo ad aiutarsi, a far sì che anche le altre terapie tradizionali e non (per questo si parla oggi di approccio integrato) abbiano una efficacia maggiore e più rapida. "Non diamo comunque false speranze, ma mi auguro che un domani sia possibile anche negli hospice offrire questo tipo di intervento, che può comunque migliorare la qualità di vita anche in fase terminale. Lo stato di trance, infatti, diminuisce in modo considerevole sia i livelli di ansia che la sintomatologia dolorosa e, con l’ipnosi, è possibile attivare quella farmacia naturale che c’è nel nostro corpo e che produce “oppiacei” come le endorfine".
Non solo, la Dott.ssa Duce lavora anche con la famiglia nel cosiddetto “approccio stereo”, necessario spesso per migliorare le situazioni conflittuali, per sciogliere i nodi irrisolti del passato che resistono all’interno delle relazioni familiari, alla ricerca di un tempo necessario per chiarirsi e perdonarsi reciprocamente. Per prepararsi alla morte bene, insomma. "Nel mio studio", ha concluso la psicoterapeuta, "ho quadri dipinti a tante mani da miei pazienti e dai loro famigliari che si sono ritrovati e rimasti vicini fino all’ultimo momento in uno slancio creativo e vitale".

Emilio Balestrazzi neo Presidente della Società Italiana Trapianti di Cornea
Emilio Balestrazzi, Direttore dell’Istituto di Oftalmologia dell’Università Cattolica di Roma, è il nuovo Presidente della Società Italiana Trapianti di Cornea (SITRAC).
Il Pof. Balestrazzi è stato eletto alla guida della SITRAC dal Consiglio Direttivo in occasione del XII Convegno Nazionale. La SITRAC è un'associazione scientifica che riunisce i maggiori esperti italiani sul trapianto di cornea e ha lo scopo di favorire lo scambio di informazioni, conoscenze ed esperienze riguardanti le tecniche chirurgiche e parachirurgiche, le terapie mediche, i problemi medico legali e i risvolti sociali del trapianto di cornea e delle tematiche a esso correlate, oltre a stimolare la ricerca sull'argomento.
La nomina arriva a coronamento di un percorso quasi trentennale di studio e di ricerca relativa alla chirurgia del trapianto di cornea, che si è sviluppato, oltre che attraverso l’attività clinica e chirurgica svolta, anche presso l’Università di Roma “La Sapienza”, il Policlinico Umberto I e la Fondazione della Banca degli Occhi di L’Aquila (Centro di riferimento regionale per la donazione e i trapianti di cornea).
"Negli ultimi anni" ha spiegato il Prof. Balestrazzi "abbiamo assistito a un considerevole sviluppo della tecnologia in campo medico, che ha permesso di migliorare notevolmente i risultati chirurgici, aumentando il numero dei pazienti affetti da patologie corneali che possono sostenere il trapianto di cornea".
"Il laser a femtosecondi intraLase, acquistato dal Policlinico nel 2005, è la più moderna apparecchiatura per la chirurgia intracorneale, basata su un laser a femtosecondi che effettua incisioni nello spessore corneale a profondità e secondo geometrie programmabili, e che permette di eseguire trapianti cornea, lamellari e perforanti, di estrema precisione" ha sottolineato Balestrazzi. "Con IntraLase sono stati eseguiti, presso la Clinica oculistica del Gemelli da me diretta, oltre 50 trapianti lamellari e perforanti per patologie come il cheratocono o le opacità corneali, oltre 500 trattamenti di chirurgia rifrattiva corneali, impianti di anellini intrastromali e cheratotomie curve per la correzione dell’astigmatismo dopo chirurgia corneale".
Balestrazzi era già Presidente della Società Europea di Patologia Oculare (EOPS) e della Società Italiana di Oncologia Oculare (SIOO); è autore di oltre 500 pubblicazioni in campo internazionale e di numerosi libri di testo in campo oftalmologico. La sua attività chirurgica è documentata da oltre 16.000 interventi sul bulbo oculare e sugli annessi.

Cartelle cliniche in rete con Google in ospedale
Potrebbe non tardare molto ad arrivare quel giorno in cui gli utenti di Google mail (Gmail), magari con la stessa password con cui oggi accedono al loro account di posta elettronica, potranno avere accesso anche a una “cartella clinica” online strettamente personale, in cui leggere all’occorrenza i propri dati medici, indirizzarli a uno specialista o ricevere da quest’ultimo prescrizioni mediche di vario tipo; il tutto, si spera, con un sistema protetto che impedisca l’accesso di questo servizio a malintenzionati. È la prospettiva che si intravede nel progetto pilota avviato da Google e dalla Cleveland Clinic americana per stoccare elettronicamente i dati clinici inizialmente di 1500 pazienti, per arivare fino a 10 mila. La Cleveland Clinic è una delle istituzioni mediche no profit d’eccellenza negli Usa, mentre per ora Google si è riservato di non rivelare i particolari di questa iniziativa che potrebbe rivoluzionare l’accesso ai dati dei pazienti in una maniera più snella, mandando in soffitta la documentazione cartacea. Secondo quanto riferito dal capo-ufficio stampa della clinica americana, Martin Harris, e divulgato da Intermedia, la partnership con il colosso del web è nata perché la clinica già ha un sofisticato database elettronico che immagazzina ad oggi i dati di 120 mila pazienti. Quando saranno trasferiti sul “servizio sanitario” di Google, i dati saranno accessibili ai pazienti anche quando questi non riceveranno più assistenza medica dalla clinica. Google non è, comunque, il primo gruppo del web ad imbarcarsi in un’impresa simile: già il suo rivale Microsoft Corporation lo scorso anno aveva introdotto un sistema simile chiamato HealthVault. Viene offerto, oltre ad un account gratuito, per immagazzinare e scambiare dati medici personali, anche un motore di ricerca per articoli di carattere medico.Box 3 Un portale europeo sui tumori professionali
Un portale europeo semantico sui rischi e sulla prevenzione dei tumori professionali: è il risultato operativo del progetto EuroWorksafe. Partito nel settembre del 2006 e realizzato grazie alla collaborazione di sei diversi partner europei (Italia, Spagna, Finlandia, Bulgaria, Polonia e Bulgaria), il progetto (in rete all’indirizzo www.euroworksafe.eu) vuole essere l’esempio di come le tecnologie dell’informazione e la rete Internet possano contribuire alla comunicazione del rischio e alla prevenzione dei tumori a livello europeo, fornendo informazioni e servizi di consulenza online sul tema della sicurezza sul lavoro. "Quello occupazionale è un gravissimo problema e con la tecnologia noi riusciamo a raggiungere un maggior numero di utenti e moltissimi lavoratori" ha commentato Daniela Vecchio, coordinatrice scientifica del Progetto EuroWorksafe. "Nella mia relazione introduttiva ho scritto che il lavoro uccide più della guerra. Secondo i dati dell'organizzazione mondiale del lavoro abbiamo un morto ogni 15 secondi nel mondo, circa seimila morti al giorno e in Europa secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità circa duecentomila casi di tumore dei due milioni annui dovuti a cause lavorative".

Un gene può spiegare la suscettibilità al cancro dello stomaco
Un aumento del 50% del rischio di cancro allo stomaco (l’adenocarcinoma gastrico) è associato a una variante polimorfica del gene metilenetetraidrofolato reduttasi (MTHFR), un gene variante in oltre il 50% della popolazione italiana, se, come accade nel 18% degli individui, MTHFR è in forma omozigote. Il risultato è stato appena pubblicato sull’autorevole rivista American Journal of Epidemiology ed è basato su una analisi che include tutti i lavori pubblicati in letteratura a opera di un gruppo internazionale coordinato dalla Dott.ssa Stefania Boccia, ricercatrice dell’Istituto di Igiene dell’Università Cattolica di Roma diretto dal Prof. Walter Ricciardi.
L’adenocarcinoma gastrico rappresenta il quarto tumore più frequente nel mondo (in Europa nel 2004 sono stati diagnosticati 170mila nuovi casi con un numero di decessi pari a 140mila), mentre in Italia questo tipo di cancro ha una incidenza di 15 casi ogni 100mila abitanti.
L’assenza di studi epidemiologici prospettici è la causa della sinora scarsa o contrastante evidenza sul ruolo protettivo rappresentato dall’acido folico (appartenente al gruppo delle vitamine B) nella prevenzione di questo tipo di carcinoma.
La Dott.ssa Boccia, che coordina l’Unità di Epidemiologia Genetica e Biologia Molecolare dell’Istituto di Igiene dell’Ateneo del Sacro Cuore, ha dunque ideato un nuovo approccio al problema: per determinare il rischio di carcinoma gastrico ha studiato direttamente l’effetto di una variante genetica, la cui presenza determina bassi livelli di folati sierici.
La ricerca, premiata dalla recente pubblicazione, è stata svolta in collaborazione con l’International Agency of Research on Cancer (IARC) e con l’Università di Pittsburgh. Per ottenere i risultati conseguiti, sono stati raccolti i dati individuali di tutti gli studi pubblicati in letteratura riguardo all’associazione tra MTHFR e il cancro gastrico. Tra questi, uno studio coordinato dalla stessa ricercatrice della Cattolica condotto nel periodo 2002-2007 e pubblicato sulla rivista Biomarkers nel 2007.
"Combinando insieme i dati di oltre 1500 casi e di 2500 controlli è stato definitivamente confermato il ruolo della variante sfavorevole dell’enzima MTHFR nella suscettibilità genetica al cancro gastrico", ha spiegato la ricercatrice. Gli studiosi hanno anche dimostrato che i soggetti portatori di questa variante genetica presentano un rischio di cancro gastrico più che raddoppiato, ovvero di oltre il 100%, se la loro dieta è contemporaneamente povera di folati (principali fonti alimentari: vegetali a foglia larga, agrumi, legumi, arachidi, germi di grano e mais, pane integrale, lievito di birra, fegato e tuorlo d’uovo; va tuttavia considerato che la cottura distrugge circa il 90% dei folati negli alimenti). Ma non basta. "Lo studio appena pubblicato" ha concluso la Dott.ssa Boccia "costituisce la base per valutare un eventuale programma di screening genetico in popolazioni ad alto rischio di cancro allo stomaco con l’obiettivo di mettere a punto programmi di prevenzione individuali basati sulla somministrazioni di folati a coloro i quali sono portatori della variante genetica sfavorevole".

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