Esegui una ricerca

Informativa privacy

Un gene è causa del cancro dello stomaco

Cristina Mazzantini, N. 5 maggio 2008

Sempre più spesso i media comunicano la scoperta di nuovi geni implicati nello sviluppo di forme neoplastiche. Di recente la ribalta è toccata al cancro allo stomaco, noto anche come adenocarcinoma gastrico. Sembra infatti che alcuni scienziati, europei e americani, abbiano osservato un aumento del 50 per cento del rischio di contrarre un tumore gastrico attribuibile a una variante polimorfica del gene metilenetetraidrofolato reduttasi o MTHFR.
"Si tratta di un gene variante in oltre il 50 cento della popolazione italiana. E se, come accade nel 18 per cento degli individui, il MTHFR è in forma pericolosa ovvero quella omozigote (ereditato da entrambi i genitori portatori sani, ndr), il rischio di sviluppare una neoplasia dello stomaco è molto elevato", ha spiegato la Dottoressa Stefania Boccia, ricercatrice dell’Istituto di Igiene dell’Università Cattolica di Roma, diretto dal Professor Walter Ricciardi. Il risultato, appena pubblicato sull’autorevole rivista American Journal of Epidemiology, si basa su un'analisi che include tutti i lavori pubblicati in letteratura ad opera di un gruppo internazionale coordinato dalla stessa Dottoressa Boccia.
A tal proposito è bene ricordare che l’adenocarcinoma gastrico rappresenta il quarto tumore più frequente nel mondo. In Europa nel 2004 sono stati diagnosticati 170mila nuovi casi (con un numero di decessi pari a 140mila), mentre in Italia questo tipo di cancro ha un'incidenza di 15 casi ogni 100mila abitanti con oltre 10mila morti.
"L’assenza di studi epidemiologici prospettici è la causa della sinora scarsa o contrastante evidenza sul ruolo protettivo rappresentato dall’acido folico (appartenente al gruppo delle vitamine B 9) nella prevenzione di questo tipo di carcinoma", ha proseguito la Dottoressa Boccia che, coordinando l’Unità di Epidemiologia Genetica e Biologia Molecolare dell’Istituto di Igiene dell’Ateneo del Sacro Cuore, ha ideato un nuovo approccio al problema: per determinare il rischio di carcinoma gastrico la ricercatrice ha studiato direttamente l’effetto di una variante genetica, la cui presenza determina bassi livelli di folati sierici nel sangue.
La ricerca, premiata dalla recente pubblicazione, è stata svolta in collaborazione con l’International Agency of Research on Cancer (IARC) e con l’Università di Pittsburgh. Per ottenere i risultati conseguiti sono stati raccolti i dati individuali di tutti gli studi pubblicati in letteratura riguardo all’associazione tra MTHFR e il cancro gastrico. Tra questi, uno studio coordinato dalla stessa ricercatrice della Cattolica condotto nel periodo 2002-2007 e pubblicato sulla rivista Biomarkers nel 2007.
"Combinando insieme i dati di oltre 1.500 casi e di 2.500 controlli è stato definitivamente confermato il ruolo della variante sfavorevole dell’enzima MTHFR nella suscettibilità genetica al cancro gastrico", ha precisato alla stampa la Dottoressa Boccia. "I ricercatori hanno anche dimostrato che i soggetti portatori di questa variante genetica presentano un rischio di cancro gastrico più che raddoppiato, ovvero di oltre il 100 per cento, se la loro dieta è contemporaneamente povera di folati (vitamina B 9). I folati li troviamo nei vegetali a foglia larga (spinaci, lattuga), agrumi (pompelmo e limoni), legumi, arachidi, germi di grano e mais, pane integrale, lievito di birra, fegato e tuorlo d’uovo. Sono tutti alimenti presenti nella dieta mediterranea. Va però ricordato che la cottura distrugge circa il 90 percento delle vitamine contenute in questi alimenti". Che fare? Non è possibile cambiare il proprio corredo genetico scegliendosi i genitori giusti. Quindi è bene puntare sull'alimentazione come ha consigliato la nostra esperta. "Quando è possibile, mangiare alimenti crudi per evitare il depauperamento vitaminico dovuto alla cottura. In caso di carenza organica è necessario ricorrere a integratori di acido folico e ad alimenti fortificati".
Ma qual è il fabbisogno quotidiano di acido folico? La risposta viene dall'Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (INRAN), in accordo con la Società Italiana di Nutrizione Umana (SINU), che rispetta le Recommended Dietary Allowances (RDA) europee e americane. Per un individuo sano la dose quotidiana di acido folico deve essere di circa 0,2 mg. Durante la gravidanza, invece, il fabbisogno giornaliero raddoppia (0,4 mg), vista la sua importanza nel prevenire le malformazioni congenite.
In USA dal 1° gennaio 1998 l'acido folico è stato aggiunto a diversi prodotti alimentari (pane, cereali, farine, mais, pasta, riso e altri derivati dei cereali), fino a raggiungere un livello di 140 µg per 100 g, per garantire a tutte le donne in età fertile un maggiore apporto. Una porzione di tali alimenti fornirebbe, così, circa il 10 per cento della razione giornaliera raccomandata. Qualcuno ha suggerito che si potrebbe fare anche di più: per diminuire il rischio cardiovascolare sarebbero infatti necessari 5 mg/giorno di acido folico, e probabilmente una dose simile è richiesta anche per diminuire il rischio di cancro. In Italia non è vigente una normativa per la fortificazione obbligatoria degli alimenti ma esiste solo una fortificazione volontaria adottata da alcune industrie alimentari. Infatti nel nostro Paese sono presenti sul mercato solo alcuni alimenti fortificati come cereali da colazione prodotti da industrie multinazionali, succhi di frutta, un latte speciale UHT e pochi altri prodotti di non larga diffusione. La fortificazione (volontaria o obbligatoria) prevede l'aggiunta di acido folico all'alimento e deve essere dichiarata in etichetta. Per quanto riguarda i supplementi, i prodotti sono in continuo aumento e sono diversi sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. In diversi Paesi come Canada, Australia e Nuova Zelanda, è ammessa la fortificazione volontaria di alimenti e pertanto sono presenti sul mercato alimenti fortificati, il cui consumo però non sembra avere inciso in maniera significativa sugli indicatori per lo stato di nutrizione di folati.
"La posizione dell'American Dietetic Association, condivisa dall'INRAN e dalle altre associazioni scientifiche in nutrizione, riguardo alla fortificazione degli alimenti e ai supplementi è che la migliore strategia nutrizionale di promozione della salute e di riduzione del rischio di malattie croniche è scegliere una larga varietà di alimenti", ha puntualizzato la Dottoressa Boccia. "Aggiunte addizionali di vitamine (o minerali) da alimenti fortificati e/o supplementi possono aiutare alcuni individui in situazioni specifiche, tra cui, ad esempio, individui portatori del genotipo sfavorevole dell'enzima metilenetetraidrofolato reduttasi (MTHFR), sino a raggiungere le raccomandazioni nutrizionali".
Anche se può rappresentare una buona strategia, da sola non basta. "Lo studio appena pubblicato", ha concluso la ricercatrice della Cattolica di Roma, "costituisce la base per valutare un eventuale programma di screening genetico in popolazioni ad alto rischio di cancro allo stomaco. L'obiettivo è mettere a punto programmi di prevenzione individuali basati sulla somministrazione di folati per i portatori della variante genetica sfavorevole".

Canada e geni del cancro gastrico
Un gruppo di scienziati della BC Cancer Agency di Vancouver (Canada) ha individuato nuove mutazioni genetiche collegate a una forma di cancro gastrico ereditario, considerata la seconda più frequente causa di morte nel mondo. I risultati dello studio sono stati presentati al convegno annuale della Società Americana di Oncologia Clinica.
Esistono due varianti principali della malattia: una forma intestinale e una diffusa. Quest'ultima, più popolare e pericolosa, nota con l'acronimo CGED, è causata da mutazioni che occorrono sul gene CDH1. Identificare le possibili mutazioni pericolose può offrire la possibilità di individuare i fattori di rischio e studiare strategie di prevenzione. Pardeep Kaurah e i suoi colleghi della BC Cancer Agency hanno condotto uno studio per verificare il tipo e la frequenza di tali mutazioni in 38 famiglie in cui erano stati diagnosticati casi di CGED. Sono state, così, individuate 13 nuove mutazioni ricorrenti.
I risultati confermano che una percentuale, che arriva fino al 50 per cento nelle famiglie con casi multipli di malattia, è portatrice di una mutazione del gene CDH1 nelle cellule germinali, che la rendono quindi trasmissibile alle generazioni successive.

Nanoparticelle raccolgono biomarkers per la diagnosi del tumore
Il lungo e difficile sforzo di trovare biomarkers nel sangue per la diagnosi del cancro e di altre malattie potrebbe presto ottenere successo grazie all’utilizzo di nuove nanoparticelle che rimuovono, in modo rapido, piccole proteine e altre molecole dal sangue, proteggendole simultaneamente dalla degradazione. È quanto emerge da uno studio congiunto tra George Mason University e IRCCS-CRO Istituto nazionale dei tumori di Aviano, i cui risultati sono stati pubblicati da Nano Letters.
I ricercatori, per identificare i biomarkers nel sangue correlati alla malattia, affrontano solitamente due grandi problemi che sembrano scomparire con l’impiego di nuove nanoparticelle a base di polimeri. Se per eliminare dal sangue albumina e immunoglobulina (due proteine che rappresentano il 90 per cento delle molecole) si corre il rischio di eliminare anche i potenziali biomarkers, grazie all’utilizzo di nanoparticelle impregnate di acqua e con pori di dimensione ben definita è possibile trasportare le proteine e altre piccole molecole dentro una matrice di polimeri.
Controllando la dimensione dei pori, i ricercatori sono quindi in grado di creare particelle che escludano albumina e immunoglobulina senza catturare le proteine più piccole e le altre molecole. Una volta intrappolate nelle particelle, le proteine non degradano. Quando l’isolamento è completato, le particelle possono essere rimosse dai campioni di sangue attraverso una centrifugazione. Box3 Medulloblastoma: nuove armi grazie alle cellule natural killer
Riuscire a distruggere le cellule staminali cancerose può essere la mossa vincente per uccidere un tumore. Purtroppo, in molti casi, queste cellule sono ben poco sensibili ai chemioterapici utilizzati nella terapia anti-tumorale. Allora come identificarle ed eliminarle? Una risposta possibile è data da uno studio pubblicato sull’ultimo numero di EJI, una prestigiosa rivista internazionale, da parte di un'équipe di ricercatori del Gaslini e del Dipartimento di Medicina Sperimentale dell’Università di Genova.
L'équipe, coordinata da Cristina Bottino, Ordinario di Patologia Generale dell’Università di Genova e responsabile del laboratorio di Immunologia del Gaslini, fa parte del Gruppo 2003, costituito da scienziati italiani che lavorano nel nostro Paese e figurano negli elenchi dei ricercatori più citati al mondo, nell’ambito della letteratura scientifica internazionale (http://isihighlycited.com).
Oggetto degli studi è stato il medulloblastoma, il tumore maligno del sistema nervoso centrale più comune nei bambini. In molti tumori esistono cellule staminali cancerose le quali “alimentano” in continuazione il tumore. In alcuni casi queste cellule hanno sulla loro superficie antigeni (vere e proprie bandierine di riconoscimento) differenti da quelli delle altre cellule del tumore e grazie ai quali possono essere identificate.
"Abbiamo analizzato le cellule del medulloblastoma", ha spiegato la Professoressa Bottino, "e si è notato che alcune avevano l’antigene CD133 mentre in altre cellule era assente. Il CD133 è un antigene presente sulle cellule staminali di vari tumori e permette quindi di identificarle".
Le cellule natural killer sono presenti nel nostro sangue che, opportunamente stimolate in laboratorio, uccidono con efficacia le cellule di molte leucemie acute e tumori. "Ci siamo chiesti" ha continuato la Bottino "se le NK fossero in grado sia di “vedere” le cellule staminali CD133-positive del medulloblastoma che di eliminarle. La risposta a entrambi i quesiti è stata positiva: le cellule staminali del medulloblastoma possono essere “viste” e uccise dalle cellule NK. Tutto questo in laboratorio".
"Sappiamo che nel caso di neoplasie molto aggressive e spesso letali come le leucemie acute ad alto rischio, le cellule NK fanno dei veri e propri miracoli" ha precisato il Professor Lorenzo Moretta, Direttore Scientifico dell’Istituto Gaslini e coautore del lavoro. "La situazione qui è però un po’ diversa rispetto alle leucemie, data la localizzazione “protetta” del medulloblastoma. Tuttavia è possibile ipotizzare l’infusione locoregionale di cellule NK, dopo l’intervento chirurgico di asportazione del tumore".
Esiste la possibilità concreta che le NK possano scovare e uccidere le cellule staminali tumorali residue (che la chirurgia non è riuscita a eliminare) e che sono responsabili delle recidive del tumore stesso, purtroppo molto frequenti. Questi studi, oltre ad offrire nuove e concrete armi terapeutiche contro tumori letali, rafforzano il concetto che l’utilizzo di armi efficaci presenti nel nostro organismo (come le NK) può risultare, almeno in certe situazioni, vincente per debellare malattie gravi.

Tumore del cervello: in tre anni quadruplicata la sopravvivenza
Il tumore del cervello fa meno paura. Per il glioblastoma, la più aggressiva fra le neoplasie del sistema nervoso centrale, la sopravvivenza dopo due anni dalla diagnosi negli ultimi tre anni è passata dal 10 per cento con il solo trattamento radioterapico al 40 per cento con i nuovi trattamenti combinati. I dati emergono da uno studio condotto su 103 pazienti dalla Dottoressa Alba Brandes, Direttore dell’U.O. Complessa di Oncologia dell’Ospedale Bellaria-Maggiore di Bologna, e presentati a Bologna in occasione del quarto congresso mondiale sui tumori del cervello.
"Il nostro studio" ha evidenziato la Brandes "è stato condotto con la somministrazione di un chemioterapico per via orale, la temozolomide, in associazione alla radioterapia, e successivamente il solo farmaco in cicli mensili di terapia. Questo trattamento sequenziale è stato prolungato oltre i 6 mesi canonici sino ad almeno 12 mesi o, nei casi fosse presente ancora un dubbio di presenza di malattia, anche oltre i 12 mesi. Sono state inoltre valutate le caratteristiche genetiche dei tumori e in particolare il gene MGMT, che permette di produrre una proteina capace di riparare i danni indotti dalla chemioterapia sulla cellula tumorale di glioblastoma.
L’assenza (metilazione) di questo gene ha quindi permesso di prevedere l’efficacia della temozolomide. Grazie all’integrazione dei dati genetici e delle caratteristiche dei quadri neuroradiologici siamo stati in grado di proseguire il trattamento anche in quei casi dubbi, dove un tempo veniva interrotto il trattamento nel sospetto di ricrescita della malattia, con notevoli risultati in termini di aumento della sopravvivenza e qualità di vita dei malati, finora insperati nel trattamento di questa patologia". Lo studio sarà pubblicato sul Journal of Clinical Oncology, una fra le più prestigiose riviste oncologiche internazionali.
Al congresso era presente anche la ricercatrice svizzera Monika Hegi, che ha scoperto il gene MGMT. "Il prolungamento della terapia di mantenimento con la temozolomide" ha affermato "può impattare positivamente sulla sopravvivenza. Il National Cancer Institute del Canada ha già cambiato le linee guida. Altro dato importante è che questi risultati clinici indicano per la prima volta che la “target therapy” funziona anche per i tumori del cervello, come avviene per altri tipi di cancro come quello della mammella, del colon, del polmone. Questi dati sono destinati a influenzare le future strategie terapeutiche".
Il glioblastoma è una patologia altamente aggressiva: rappresenta il 12-15 per cento di tutti i tumori del cervello e il 50-60 per cento di quelli astrocitari, con un’incidenza nel mondo di 175 mila casi e 125 mila decessi. Non vi sono fattori di rischio conosciuti: in rarissimi casi è stata documentata una familiarità ma non una vera e propria ereditarietà.
"Si tratta di numeri statisticamente importanti ma che acquistano un significato ancora più rilevante visto il forte impatto sociale di questa patologia", ha proseguito la Brandes. "Il glioblastoma infatti può colpire persone giovani, nel pieno della propria lavorativa ed affettiva, che più risentono della perdita di produttività, autosufficienza e ruolo nella famiglia e nella società. Non sono state inoltre rilevate, con questo trattamento prolungato, tossicità rilevanti nella maggioranza dei pazienti".
Nella lotta al più aggressivo fra i tumori cerebrali, il glioblastoma, sono stati fatti enormi passi avanti negli ultimissimi anni, grazie alle nuove conoscenze di genetica molecolare farmacologie e neuroradiologia. E un netto vantaggio è emerso per le donne affette da questa patologia, che sopravvivono per il 57 per cento a due anni, contro il 35 per cento dei maschi.
"Il motivo della differente risposta alla terapia nei due sessi non è ancora noto, forse è legato al cromosoma XX, ma il risultato globale è straordinario: è l’anno zero per chi si occupa di questa patologia. Abbiamo la necessità di rivedere completamente i criteri di prognosi" ha sottolineato la Brandes "e di studiare i meccanismi genetici alla base di questa predisposizione, per poter conoscere meglio come colpire la malattia senza danneggiare l’individuo".

Torna ai risultati della ricerca