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Il medico del terzo millennio
Patrizia Miazzo, N. 11 novembre 1999
l malato oncologico vive una situazione che sconvolge la sua vita e quella dei familiari, le aspettative di vita precipitano, il rapporto con la società si modifica e la perdita di una posizione di forza all'interno della famiglia viene meno. Quindi è un paziente che necessita di particolari attenzioni e supporti. Il medico, sia quello di famiglia sia lo specialista, deve porgersi nei suoi confronti con più sensibilità e non esclusivamente con un approccio medico-scientifico-terapeutico. La tecnologia galloppante sarà sempre e solo uno strumento al servizio del medico oncologico. Il suo paziente ha bisogno di rassicurazione, di informazioni, di aiuto per vincere paure ed incertezze. La tecnologia non potrà mai sostituirsi ad una parola o al calore di un buon rapporto interpersonale. Abbiamo intervistato la Dottoressa Vittoria M. Borella, specialista in tecniche della comunicazione, per capire come si dovrebbe svolgere un rapporto tra medico-paziente. Dottoressa Borella, quale dovrebbe essere l'approccio per la comunicazione di una malattia come il cancro? Quale il modo migliore per affrontare una così difficile comunicazione? Anche se comunicare ad un paziente che ha un tumore, può sembrare un compito molto arduo, l'approccio e il rapporto che il medico dovrebbe stabilire con il proprio paziente richiede, a mio parere, tutte le caratteristiche comunicazionali di qualsiasi rapporto medico/paziente. Cosa deve fare un medico per capire il malato che affronta il cancro? Il medico, in quanto esperto della materia dal punto di vista scientifico, conosce indubbiamente molto bene la situazione cui va incontro il paziente, quindi deve, soprattutto, essere consapevole della paura dell'ignoto (cure, dolore fisico, morte, ecc.) che il paziente dovrà affrontare e gestire nel tempo. Un buon approccio di base dovrebbe dare rassicurazione, tranquillizzare, dare fiducia in modo che il medico, il professionista e la persona, diventi un punto di riferimento nel mare di incertezza in cui si viene a trovare la persona cui è stato diagnosticato un cancro. Quale la comunicazione più chiara tra medico-paziente-famiglia? Dato che il malato di cancro ha sempre i familiari vicini, dovrà agire su diversi livelli, ma anche con i parenti dovrà anzitutto avere l'immagine e il carisma di chi conosce come va affrontata la situazione dal punto di vista terapeutico, dando però anche qualche informazione di base - purché in modo chiaro e comprensibile - al fine di abbassare le emozioni di chi sta attorno al malato. Abbassare l'emozionalità e il coinvolgimento è una cosa positiva in quanto il paziente è spaventato, la confusione attorno a lui non può fare altro che aumentare il suo forte disagio e la inevitabile paura. Come interagire con il paziente? L'interazione con il paziente, una volta stabilito il rapporto di fiducia, sarà come tutte le buone interazioni: una buona dose di empatia, disponibilità all'ascolto, comunicazione chiara. Strategie comportamentali di un medico durante la visita oncologica. La visita oncologica va vissuta da parte del medico con la più alta professionalità, e, da parte del paziente, con la maggiore serenità possibile. Non solo parole o paroloni. Parole e paroloni: non servono in nessuna comunicazione tanto meno nel nostro caso. E' finito il tempo in cui il medico parlava "latinorum" e tutto quello che diceva veniva accettato come oro colato. I pazienti di oggi sono informati tramite i mass media, leggono pubblicazioni specialistiche, parlano e si informano, quindi la scelta nella comunicazione del medico deve essere fondamentalmente una: la chiarezza. Il medico dovrebbe riconoscere innanzitutto la persona non il paziente. Il buon medico, in qualunque campo operi, deve ricordarsi che ha di fronte una persona, con la sensibilità acuita, con i suoi sentimenti, con una scarsa razionalità nel momento in cui "è il malato". La persona più razionale, di fronte ad una malattia come il cancro, riesce difficilmente a mantenere la mente lucida: sono le emozioni che prevalgono in lui. E' proprio per questo motivo che occorre, da parte del medico, la chiarezza. Perché l'interlocutore è frastornato, capisce pochi concetti, la sua razionalità è ridotta al minimo. Empatia: un termine pressoché sconosciuto a molti medici. La chiarezza non deve consistere in una asettica sequenza di frasi chiare e comprensibili dette con la freddezza e spersonalizzazione di un computer. Il tono e le pause della voce, l'espressione del viso, la gestualità del medico devono veicolare empatia, cioè disponibilità e apertura nei confronti del malato. L'obiezione più frequente dei medici è la carenza di tempo: occorrono pochi minuti per annuire in modo empatetico, ascoltare oltre le parole, mettersi al posto del malato mentre si parla con lui. Sono tecniche che possono essere imparate per essere dei professionisti migliori e per trarre dal proprio lavoro una maggiore soddisfazione. Anche il fatto di "ascoltare" il paziente viene considerato una perdita di tempo prezioso. Forse perché si pensa che si debba ascoltare tutto quello che il paziente dice; basterebbe invece conoscere la tecnica dell'Ascolto Attivo, per capire che stiamo parlando di "come" si deve ascoltare, non di "quanto". Il "come" significa ascoltare oltre le parole, acquisire informazioni dal paziente mentre lo si ascolta, capire che tipo è, fargli abbassare l'emozionalità che lo manda in confusione e non gli fa capire quello che il medico dice o spiega. Se prima il paziente non viene ascoltato, è inutile fargli domande su domande: risponderà confuso e frastornato, darà informazioni inesatte, approssimative: non è questa la vera perdita di tempo? Il paziente oncologico pretende di essere trattato in modo esclusivo, personalizzato. Il paziente oncologico, come ogni tipo di paziente, chiede personalizzazione. Le unità di attenzione che il medico gli può dare (ascolto, empatia, informazioni, ecc.) vengono vissute come uniche ed esclusive e servono a rafforzare la fiducia nel medico. Il medico deve sempre sapere cosa rispondere ed essere in grado di dare fiducia. Naturalmente alla base di tutto deve esserci una perfetta conoscenza medica e scientifica del problema che viene trattato. La personalizzazione, la buona comunicazione, l'empatia, servono a facilitare la gestione del rapporto interpersonale e a rafforzare la fiducia nell'esperienza del medico da parte del paziente. Oncologia pediatrica: qui ci vuole un super-medico per capire e saper parlare ai piccoli pazienti. Quando il paziente è un bambino, il medico deve saper riconoscere i suoi sentimenti se vuole avere la sua fiducia. Il medico dovrà essere più attento a quello che i suoi giovanissimi pazienti gli dicono, rispondere ad ogni frase senza svilirne il contenuto, ma riconoscendo il sentimento che sta dietro. Se il bambino ha paura ad affrontare un trattamento, il medico non deve usare frasi del genere: "Ma sei un ometto, non puoi avere paura", "Ma cosa dici? Non sentirai niente, perchè dici di avere paura?", "Ti assicuro che non c'è da avere paura". Con queste frasi si nega il sentimento dominante del piccolo. Occorre rispondere empateticamente riconoscendo il sentimento: "deve certo far paura vedere macchine così grosse, vero?", "certo, quello che vedi può spaventare anche un grande!", "mi rendo conto che non sai se sentirai male, vorrei comunque che tu potessi poi raccontare al tuo migliore amico questa esperienza", "capisco che cosa puoi provare in questo momento, vorrei avere una bacchetta magica per far comparire la tua amica del cuore perché veda come sei brava", ecc. Solo se il giovane paziente sente riconosciuto il suo sentimento può avere fiducia nell'adulto. Come farsi ascoltare dal paziente-bambino, come ascoltare un bambino affetto da cancro? Per farsi ascoltare dal bambino/paziente occorre prima ascoltarlo, come detto appena sopra. Mettersi al suo posto è il sistema migliore per trovare le parole giuste: la prima mossa da fare è quella di riconoscere come si sente il piccolo "qui e ora". Il linguaggio dell'empatia non viene così facilmente: meglio razionalizzare prima la risposta che si vuole dare, poi tradurla in risposta empatetica. Comunque, ancora più importante delle parole è l'atteggiamento del medico: se non sarà di sincera partecipazione, tutto quello che egli dirà al giovane paziente suonerà fasullo e manipolativo. Solo le parole dette con sincera empatia raggiungono il cuore del bambino. "Mass media e scelta terapeutica in oncologia: informazione o condizionamento?". Questa domanda è il titolo del Convegno, organizzato dalla Fondazione Vaticana Maruzza Lefebvre D'Ovidio e dalla Società Italiana di Psiconcologia, con il patrocinio di ben 16 istituzioni, tra cui la Presidenza della Repubblica e del Consiglio dei Ministri, i Ministeri della Sanità, dell'Università, della Ricerca Scientifica e Tecnologica e per la Solidarietà Sociale e l'Istituto Superiore di Sanità, che si è svolto il 15 giugno, all'Ospedale Generale S. Giovanni Calibita - Fatebenefratelli di Roma. Molta la carne messa sul fuoco dagli oncologi, psicologi e giornalisti della televisione e della carta stampata, chiamati ad intervenire alla tavola rotonda e al dibattito conclusivo: chiarire il concetto di informazione scientifica; fare il punto sulle modalità di comunicazione delle informazioni scientifiche da parte dei media e sul loro ruolo nelle scelte terapeutiche; individuare un linguaggio comune tra il mondo medico e quello dell'informazione; valutare l'impatto psicologico, culturale ed educativo dell'informazione scientifica; definire delle linee guida, tecniche ed etiche, per una comunicazione corretta, rispettosa delle aspettative e delle speranze delle persone affette da tumore. Il tutto con l'obiettivo di costituire una Commissione che vagli e garantisca la veridicità delle notizie che vengono divulgate. Per ulteriori informazioni sul Convegno: Elena Castelli, Fondazione Vaticana Maruzza Lefebvre D'Ovidio, via del Nuoto 11, 00194 Roma, tel. 06 3290609, fax 06 36304591; oppure Patrizia Pinciroli, SIPO, via Garibaldi 9, 40124 Bologna, tel. 051 6440452, fax 051 6440389.
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