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Pronta la nuova classificazione per i noduli della tiroide
Paola Sarno, N. 3 marzo 2008
Giunto alla sesta edizione, il Corso internazionale, promosso dall’Istituto di Anatomia e Istologia Patologica, diretto dal
prof. Arnaldo Capelli, della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica di Roma, è un
appuntamento ormai atteso dagli specialisti del settore. Si è svolto quest’anno in due giornate, durante le quali,
alcuni tra i maggiori esperti mondiali di patologia tiroidea hanno preso in esame, in particolare, le alterazioni indotte nella
tiroide dall’incidente nucleare di Chernobyl e quelle indotte da radioterapia. Alle giornate di studio sono intervenuti tra
gli altri: Virginia LiVolsi, professore di Anatomia patologica all’Università di Pennsylvania (Philadelphia, USA),
componente del Comitato internazionale per lo Studio dei Tumori tiroidei insorti dopo l’esplosione della centrale nucleare
di Chernobyl, e Tetyana Bogdanova, membro dello stesso Comitato e professore di Anatomia patologica presso l’Accademia delle
Scienze di Kiev, tra i primi studiosi al mondo a descrivere e approfondire le indagini sui tumori infantili post-Chernobyl. Coordinatore
scientifico dell’evento è stato il Professor Guido Fadda, professore aggregato e ricercatore dell’Istituto di
Anatomia patologica dell’Università Cattolica di Roma, al quale abbiamo chiesto quali sono le più recenti acquisizioni
in campo scientifico ottenute dagli studiosi del “fenomeno” Chernobyl.
“L’idea generale era quella di andare a vedere, chiamando degli esperti della materia, ad anni di distanza, cosa è
avvenuto a Chernobyl e quali potevano essere gli effetti del disastro nucleare su quello che è il nostro modo quotidiano
di lavorare ed eventualmente se ci fossero stati degli esiti patologici anche in Paesi molto più lontani dall’”epicentro”
della catastrofe. Al riguardo, proprio recentemente, sono emerse delle novità interessanti: fino ad oggi, infatti, si sapeva
che fra i bambini che avevano fino a 5 anni di età o addirittura fra quelli che erano ancora allo stato fetale al momento
dell’incidente nel reattore nucleare si era registrato un significativo incremento dei tumori della tiroide (oltre 60 volte
rispetto alla popolazione normale). Questo fatto già di per sé non lascia alcun dubbio circa il fatto che ci sia stato
un nesso di causalità fra il disastro nucleare e l’aumento imponente dell’incidenza dei tumori della tiroide.
Si ponevano tuttavia una serie di problemi legati al fatto che dalla centrale di Chernobyl al momento dell’incidente avvenuto
nel 1986, erano fuoriusciti soprattutto radioisotopi dello iodio, ma anche altre “scorie”. Anche perché alcuni
isotopi dello iodio radioattivo hanno un’emivita molto bassa, maa Chernobyl sono state liberate nell’atmosfera e nel
terreno anche altri isotopi radioattivi, come il cesio 137 e lo stronzio 90. E, a questo proposito, sono state fatte le scoperte
più interessanti.
Innazitutto, nel primo decennio dopo Chernobyl le forme neoplastiche erano estremamente aggressive, soprattutto nei confronti dei
bambini, che una volta raggiunta l’età adulta hanno iniziato a sviluppare tumori spesso multipli, di tipi diversi,
non solo nella variante papillare, ma anche carcinomi tiroidei midollari, molto più gravi. In secondo luogo, in una percentuale
molto bassa, meno dell’1% dei casi, questi tumori papillari sviluppavano delle metastasi in tempi brevi, cioè nell’arco
di mesi o addirittura hanno metastasi al momento della diagnosi. Contrariamente a quanto avviene di solito per questi tumori che
quando compaiono nell’adulto, ma anche nei bambini, sviluppano metastasi addirittura a vent’anni di distanza, nei bambini
di Chernobyl, si sono osservate addirittura al momento della diagnosi. Si tratta quindi di pensare ad una evoluzione rapidissima
delle forme neoplastiche dovute all’incidente nucleare, a tumori estremamente aggressivi, che sin da subito, o nel corso del
tempo hanno sviluppato metastasi. Il primo decennio di studi su quanto accaduto nell’ex Urss ci aveva già fatto capire
che il radioiodio uscito da Chernobyl era estremamente aggressivo e che produceva tumori molto più aggressivi di quelli fino
a quel momento conosciuti in oncologia.
Nel secondo decennio, invece, stiamo assistendo a una riduzione di questa aggressività. Infatti, i tumori che stanno facendo
la loro comparsa in questo periodo (dal 1996-98 ad oggi) sono più “usuali”, meno aggressivi, più tipici,
insomma, della morfologia delle lesioni neoplastiche tiroidee. Rispetto alla variante solida, molto più frequente nel primo
periodo, nel secondo c’è una netta prevalenza delle variante papillare. Anche il profilo di tipo genetico- molecolare
è diverso: le cellule tumorali si “riarrangiano” in modo diverso, passando dal modello RET/ptc 3 , tipico della
variante solida, ai modelli RET/ptc 1 o 2, più caratteristici di quella papillare. Tutto ciò sta a significare che
con l’andar del tempo questi tumori stanno diventando più tipici e meno pericolosi per la salute umana.
Ma perché è avvenuto questo passaggio? Questo è un altro problema. Non ci sono ancora certezze al riguardo.
Forse l’esposizione allo iodio avvenuta in età appena superiore ai primi anni di vita non è stata così
letale come per i più piccini e l’organismo dei bambini più grandi è stato in grado di combattere i danni
dovuti all’aggressione delle radiazioni, di difendersi meglio rispetto ai radioisotopi avendo un sistema immunitario meno
fragile. Una terza fascia di popolazione è quella dei ragazzi che al tempo dell’esplosione del reattore avevano dai
10 ai 15 anni e che oggi sono giovani adulti che mostrano solo ora le prime manifestazioni neoplastiche.
Un ulteriore problema, inoltre, è costituito dai cosiddetti “liquidatori”, cioè da coloro che hanno lavorato
negli anni successivi alla catastrofe sulla centrale di Chernobyl. Al riguardo c’è tutta un’intera epidemiologia
che registra un aumento di tumori in queste persone , che pur avendo lavorato con ogni tipi di protezione possibile, stanno di fatto
sviluppando. Ciò probabilmente è dovuto al fatto che questi radioisotopi sono passati nel terreno, e costituiscono
ormai una fonte di inquinamento “permanente”. Al riguardo negli studi sull’argomento sono stati presi in esame,
non tanto lo iodio radioattivo, quanto lo stronzio 90 e il cesio 137, ma anche l’uranio, che hanno un’emivita di molti
anni”.
Che cosa ha insegnato quindi Chernobyl alla medicina?
“L’incidenza della patologia tiroidea da radiazioni ha subito un forte incremento a seguito dei tragici avvenimenti
di Hiroshima e Nagasaki del 1945, ma è stato l’incidente nucleare di Chernobyl del 1986 a far balzare agli onori della
cronaca i tumori tiroidei indotti da radiazioni ionizzanti. E non solo quelle prodotte da disastri nucleari.
Gli epidemiologi, infatti hanno studiato anche un altro gruppo di popolazione , che comprende quegli individui che hanno sviluppato
tumori dopo essere stati sottoposti a radioterapie, da adulti o da bambini, soprattutto per la cura di linfomi nella zona toracica.
Le conseguenze di questi interventi non sono del tutto paragonabili a quelle che si sono registrate nelle persone investite dall’esplosione
nucleare, perché questi individui non presentano certo forme tumorali così aggressive come quelle del primo periodo
dopo Chernobyl! Tuttavia, proprio Chernobyl inizia a farci capire che non esiste un tempo massimo di latenza fra il momento dell’esposizione
a radiazioni e quello in cui un tumore tiroideo può iniziare a manifestarsi. Abbiamo, in letteratura, persino esempi di tumori
che sono comparsi 40 anni dopo l’irradiazione! Negli anni Sessanta, prima si mitizzavano, infatti radiazioni ionizzanti per
patologie anche estremamente banali, come le tonsilliti croniche, l’acne, le adenoidi e per l’iperplasia timica infantile.
Queste persone, oggi hanno un rischio relativo più alto rispetto a chi non le ha subite, di sviluppare neoplasie della tiroide.
Una delle conseguenze più temibili delle radiazioni sulla tiroide è il carcinoma. Ecco perché la tiroide dei
pazienti esposti alle radiazioni dovrebbe essere controllata praticamente per tutta la vita e tutti i noduli tiroidei dovrebbero
essere sottoposti ad agoaspirazione, anche utilizzando la metodica di citologia in strato sottile per la quale l’Istituto
di Anatomia patologica dell’Università Cattolica di Roma è centro di riferimento nazionale, per poter cioè
evidenziare alterazioni geniche indotte dalle radiazioni e asportare eventuali neoplasie maligne prima che raggiungano uno stadio
avanzato.
Il Servizio di Istopatologia e Citodiagnosi del Gemelli (diretto dal prof. Fabio Maria Vecchio) utilizza anche la tecnica di allestimento
su strato sottile in fase liquida, che consente un più facile utilizzo delle metodiche immunocitochimiche (markers di malignità
nella citologia tiroidea, recettori estro-progestinici nella citologia mammaria) e molecolari. Il Servizio definisce ogni anno le
diagnosi di oltre 33.000 casi (19.443 istologici e 14.206 citologici), di cui circa 4.000 di citologia agoaspirativa (dati relativi
al 2006), gestiti attraverso un moderno sistema informatico, che consente anche la consultazione in tempo reale dei precedenti esami
custoditi degli archivi (oltre 820.000 dal 1971 a oggi).
Come sono migliorate diagnosi e terapia delle lesioni tiroidee?
Chernobyl è stata un’occasione per capire meglio il funzionamento dei tumori tiroidei, la loro eziologia, e la loro
evoluzione, in seguito a determinati agenti radioattivi. In seguito a ciò abbiamo migliorato in modo notevolissimo le nostre
capacità diagnostiche e oggi, grazie a ecografia e ago aspirato non si arriva più alla scoperta del tumore quando
ormai lo stadio di crescita è già molto avanzato. Infatti le patologie tiroidee possono essere sia sintomatiche che
asintomatiche. Nel primo caso si avverte un nodulo palpabile o addirittura visibile della tiroide (fra 200.000 e 1 milione di persone
in Italia, circa il 4-7% della popolazione adulta, ma solo il 10% ha la possibilità che il nodulo sia maligno). I noduli
asintomatici vengono diagnosticati casualmente, per un controllo ecografico, per una vista di altro genere. Il numero di questi
individui è quindi molto più elevato (oltre la metà della popolazione italiana). Ma solo il 5% di tutti i noduli
che vengono in un modo o nell’altro diagnosticati e forse ancora meno, sono di natura maligna.
Dopo la diagnosi, ottenuta attraverso una ecografia, tuttavia, è necessario sapere di che cosa si tratta. Per questo si utilizza
l’ago aspirato cioè lì introduzione di un sottile ago nella lesione per prelevare un campione di tessuto. L’ago
aspirato Tuttavia non riesce a fare la diagnosi nel 100% dei casi. Alcune volte riesce soltanto a generare un “sospetto di
neoplasia”. Naturalmente chi gestisce il paziente, endocrinologo, oncologo o chirurgo, ha delle grosse difficoltà in
merito al trattamento da seguire. Nel tempo ognuno ha seguito una propria strada: c’era chi decideva di intervenire chirurgicamente
in modo sistematico, chi no. Ciò ha generato anche incomprensioni e difficoltà di colloquio con il paziente.
Per questo avete pensato a una classificazione?
Sì. C’era soprattutto una grande disomogeneità di trattamento. Pazienti a Roma venivano trattati in un modo
e a Pisa in un altro. Soprattutto la Società Italiana di Endocrinologia diretta dal Prof. Pinchera, che sta elaborando delle
linee guida di trattamento, chiedeva agli anatomo-citopatologi italiani di riunirsi per fare un consensus, mettersi cioè
d’accordo su dei criteri, definizioni, nomenclatura, categorie, individuarne un certo numero, tale che i clinici di tutta
Italia adottare un approccio uniforme di fronte a una lesione di un certo tipo. La classificazione delle lesioni tiroidee era necessaria
per orientare la scelta tra un approccio terapeutico di tipo medico, cioè con terapia farmacologia e perciò non invasiva,
oppure di tipo chirurgico con l’asportazione della lesione; a tal fine abbiamo individuato differenti categorie diagnostiche,
ognuna delle quali caratterizzata da una differente appropriata terapia. Elaborata dai maggiori esperti italiani, e adottata a Firenze
il 12 settembre scorso sotto l’egida della Società Scientifica di Anatomia Patologica, SIAPEC-IAP, la classificazione
sta per essere inserita nel documento che conterrà le Linee guida nazionali per la gestione clinica dei pazienti con noduli
tiroidei. Contemporaneamente allo sforzo italiano, anche nel resto del mondo ci si è impegnati a questo riguardo. Il problema
è stato risolto nel 2007 nel Regno Unito, e il dibattito è ancora in corso negli Stati Uniti. Il lavoro italiano è
durato un anno, ma abbiamo ottenuto un risultato all’avanguardia. Le lesioni sono state suddivise in cinque classi, a seconda
del loro grado di gravità. La TIR 1 è quella dei materiali non diagnostici, insufficienti, inadeguati, quando l’ago
aspirato non riesce a prendere abbastanza materiale. La TIR 2 comprende le lesioni non neoplastiche come i gozzi e le patologie
nodulari benigni. La TIR 3 è quella definita “inconclusiva” o della “proliferazione follicolare”.
Si tratta del vero problema della citopatologia, perché ha il 20% di probabilità di malignità e quindi abbiamo
suggerito comunque l’asportazione della lesione , previo consulto con gli endocrinologi e altre valutazioni cliniche. La TIR
4, ovvero “il sospetto di malignità” comprende quelle lesioni con il 70-80% di probabilità di malignità,
laddove insomma manca solo la certezza. La TIR 5, infine, è la classe che include le lesioni evidentemente maligne. Il nostro
suggerimento è che in ogni diagnosi alla tiroide venga aggiunta anche l’indicazione di questa nuova classificazione.
Indirizzi utili
Policlinico Universitario Agostino Gemelli
Largo Agostino Gemelli, 8 - 00168 Roma
Centralino: 06 30151
Prenotazioni/informazioni: 06 3551033.0-2
www.policlinicogemelli.it
Anatomia patologica - Prof. Arnaldo Capelli - 06 30154270
Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana
Via Roma - 56126 Pisa
Centralino: 050 992111
Prenotazioni/informazioni: 050 992990
www.ao-pisa.toscana.it
Endocrinologia I - Prof. Aldo Pinchera - 050 995000
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