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Un delicato intervento per rimuovere il cordoma

Paola Sarno, N. 3 marzo 2008

Una equipe dell’Università Cattolica- Policlinico Gemelli di Roma, coordinata dai neurochirurghi Giulio Maira e Massimiliano Visocchi, ha recentemente concluso con successo un delicatissimo intervento in due tempi su una paziente di 46 anni affetta da un tumore della colonna vertebrale nella giunzione cervico-dorsale, che comprimeva il midollo spinale e i nervi della colonna. La donna era affetta da una grave paresi agli arti inferiori ed in minor misura agli arti superiori dove lamentava anche dolori difficilmente controllabili con la comune terapia medica. Durante la degenza e prima dell’intervento il quadro clinico della paziente era ulteriormente peggiorato, non permettendole più di camminare e confinandola a letto.

Il cordoma
L’intervento si è reso necessario perché la giovane donna era affetta da un cordoma, un raro tumore che origina da residui embrionali della struttura, detta “notocorda”, che costituisce il precursore dei dischi intervertebrali. A spiegare le caratteristiche di questa patologia è stato il prof. Maira, Direttore dell’Istituto di Neurochirurgia alla Cattolica di Roma “Generalmente il cordoma si localizza alla base del cranio e nella regione sacrococcigea –, cioè alla fine della colonna vertebrale. Nel caso trattato il tumore interessava un segmento della colonna generalmente risparmiato dalla malattia”.
Sebbene questi tumori siano considerati ‘benigni’ e lentamente evolutivi sono tuttavia aggressivi localmente e presentano un’elevata incidenza di recidive. La caratteristica resistenza alla comune radioterapia (una particolare modalità radiante denominata “Proton Beam” sembra essere particolarmente promettente, ma non è purtroppo ancora disponibile in Italia per i suoi elevati costi) rende particolarmente strategica la scelta della chirurgia che deve essere quanto più possibile radicale.
In quest’ottica l’equipe neurochirurgica della Cattolica si è inserita in un percorso chirurgico già iniziato presso un altro centro ospedaliero, dove sono stati effettuati in precedenza 5 interventi, procedendo all’asportazione del tumore e alla ricostruzione della colonna per via anteriore e posteriore in due tempi.

Le due fasi dell’intervento
Come si è svolto l’intervento? Per capirlo meglio lo abbiamo chiesto al prof. Massimiliano Visocchi, neurochirurgo spinale alla Cattolica di Roma, che ci ha illustrato le diverse fasi dell’operazione. “Nel primo tempo, cioè nel cosiddetto “approccio anteriore”, l’intervento è consistito nella revisione chirurgica dei segmenti già operati (in precedenza era stata effettuata l’asportazione anteriore dei corpi vertebrali dalla quinta cervicale alla prima toracica) e nell’asportazione di ulteriori corpi vertebrali fino alla terza vertebra toracica attraverso un approccio combinato laterocervicale e anteriore attraverso lo sterno cioè attraverso la gabbia toracica con un approccio sovra cardiaco. Questa modalità di approccio ha richiesto una equipe multidisciplinare, che ha previsto anche la presenza di un cardiochirurgo. Contemporaneamente”, ha proseguito il prof. Visocchi, “ è stato rimosso il tumore affiorante in quest’area con una tecnica di microchirurgia e sono stati ricostruiti sei corpi vertebrali. Per la loro ricostruzione, inoltre, si è dovuto ricorrere a un cilindro reticolato e una speciale placca in titanio agganciata mediante delle viti al di sopra e al di sotto del difetto chirurgico. L’intervento è stato particolarmente delicato perché è stato condotto in una sede compresa subito sopra l’arco arterioso dell’aorta, subito sopra il cuore, ed altre strutture venose e linfatiche vitali”.
A distanza di circa due settimane si è proceduto all’ “approccio posteriore” con il secondo tempo dell’intervento. “Dopo avere asportato il tumore in questa sede con tecnica microchirurgica, abbiamo fissato con barre e viti in titanio anche la componente posteriore di questo complesso tratto vertebrale, stabilizzandolo dalla terza vertebra cervicale alla quinta vertebra toracica”, ha aggiunto il prof. Visocchi.
A oggi, la paziente sta molto bene, deambula autonomamente e presenta un quadro neurologico di netto miglioramento oltre a un eccellente controllo radiologico.

Un’innovazione per la neurochirurgia
Ma perché questo intervento è particolarmente rivoluzionario per la neurochirurgia? “Si tratta del secondo caso al mondo per estensione della procedura demolitiva e ricostruttiva della complessa struttura anatomica interessata e il primo mai eseguito per la patologia tumorale trattata con questo nuovo approccio neurochirurgico”, spiega meglio il prof. Visocchi. “Questo tipo di intervento di neurochirurgia ricostruttiva spinale complessa trova indicazioni in tutte quelle patologie traumatiche (fratture e lussazioni vertebrali), infiammatorie (osteoartriti, osteomieliti ed ascessi vertebrali) e tumorali (tumori ossei o nervosi) che, destrutturando questo complesso segmento vertebrale, comprimono il midollo spinale ed i nervi, arrecando importanti limitazione funzionali nella vita di tutti i giorni”, ha concluso il prof. Visocchi.
L’estensione di questa chirurgia di frontiera alla patologia tumorale e in particolare ai cordomi, rientra in una vera e propria tradizione dell’Istituto di Neurochirurgia dell’Università Cattolica-Policlinico Gemelli di Roma impegnata in prima linea nella lotta contro questa malattia, avendo una delle più alte casistiche al mondo nel trattamento questi rari tumori. Tale lotta è condotta anche grazie all’Associazione ATENA (Associazione Terapie Neurochirurgiche Avanzate), presieduta dal Prof. Maira, attraverso la realizzazione di programmi di ricerca clinica che hanno l’ambizioso obiettivo di sconfiggere decisamente questa patologia.

Tumore della vescica: una chemioterapia per gli over 65
Potrebbe essere più vicino il momento in cui anche gli anziani colpiti da un tumore della vescica potranno usufruire di una chemioterapia efficace; una sperimentazione coordinata dal Medical College della Georgia dovrebbe infatti fornire entro qualche mese risposte esaurienti su una nuova molecola che si candida al delicato ruolo di chemioterapico attivo e somministrabile anche agli over 65: il derivato della vinca vinflunina.
I pazienti con un carcinoma della vescica in fase II, cioè localmente avanzato, di solito vengono trattati – prima o dopo l’intervento chirurgico – con un cocktail a base di cisplatino e gemcitabina. Purtroppo, però, il principale effetto collaterale del cisplatino è il danno a carico dei reni, che può portare allo scompenso renale, e la gemcitabina, da sola, non è sufficiente a scongiurare il rischio di recidive. Il carboplatino, del resto, è meno pericoloso per i reni, ma non è efficace quanto il cisplatino, e il suo utilizzo non risolve la questione.
Dal canto suo, il tumore (che occupa il sesto posto per diffusione ed è particolarmente legato al fumo di sigaretta), di solito si estende nei tubuli renali, e questo, a sua volta, provoca seri danni ai reni stessi. Ad aggravare il quadro c’è poi il fatto che la sua incidenza raggiunge i massimi livelli dopo i 60 anni, quando i malati possono presentare compromissioni dell’apparato genitourinario dovute a cause non oncologiche, quali il diabete o l’ipertensione. Tutto ciò fa sì che più del 50 per cento dei malati di età compresa tra i 70 e gli 80 anni, e circa un malato su tre in generale, non possa essere trattato con cisplatino, una preclusione che lascia l’amaro in bocca dal momento che il trattamento, in molti casi, è risolutivo, soprattutto quando la malattia è ancora nelle sue fasi precoci.
La sperimentazione appena partita, di fase II (sponsorizzata dall’azienda produttrice, la Bristol-Meyers Squibb), cui aderiscono urologi e oncologi di 120 centri statunitensi, europei ed asiatici, potrebbe dunque contribuire a introdurre il nuovo farmaco soprattutto nella cura dei malati più in là con gli anni, che sono la maggioranza. Stando allo schema previsto, i partecipanti sono randomizzati ad assumere vinflunina e gemcitabina, oppure gemcitabina più placebo in infusione endovenosa (ai giorni 1 e 8 in cicli di 21 giorni ciascuno); i pazienti che sopportano bene la terapia completeranno un anno intero di cure. La vinflunina – che, come i suoi analoghi già in uso da decenni impedisce la divisione cellulare - ha come principali effetti indesiderati l’anemia, la depressione del sistema immunitario e la fatigue. La speranza dei medici è che essa sia efficace almeno quanto il cisplatino e riesca ad assicurare ai malati che non hanno una malattia metastatica una sopravvivenza a cinque anni pari al 50 per cento dei trattati; in un’altra sperimentazione condotta su malati con un carcinoma renale metastastico, si è avuta una stabilizzazione nel 67 per cento dei trattati. L’azienda spera di ottenere l’autorizzazione all’introduzione in clinica nei primi mesi del 2008, avendo già condotto sperimentazioni sui tumori della mammella, del polmone, sul melanoma cutaneo e sul mesotelioma

Una nuova strada per la cura dei tumori “dormienti”
La battaglia fra il cancro e il sistema immunitario può concludersi con la vittoria dell’uno o dell’altro ma anche con un pareggio. Questo sospetto, alimentato da osservazioni nella realtà ma mai studiato in laboratorio è stato confermato da uno studio internazionale pubblicato da Nature. I ricercatori sono riusciti a verificare per la prima volta la presenza in alcuni organismi di tumori resi ‘dormienti’ dal sistema immunitario, che non riuscendo a sconfiggerli definitivamente, li rende, almeno temporaneamente, inoffensivi. La scoperta apre la strada a un nuovo tipo di cure che potrebbe trasformare il cancro in una malattia cronica ma molto più controllabile. Secondo le teorie più recenti, le difese naturali dell’organismo possono sconfiggere definitivamente il tumore, o esserne sconfitte, oppure instaurare un equilibrio con la patologia, in cui la neoplasia pur sopravvivendo rimane circoscritta e non riesce a svilupparsi. Quest’ultima ipotesi si è sempre basata su osservazioni sperimentali, come il fatto che in alcuni trapianti il ricevente sviluppa il cancro proprio nell’organo impiantato, o la tendenza di alcuni tumori a scomparire per poi ripresentarsi dopo diversi anni. Tra i ricercatori che l’hanno verificata per la prima volta in laboratorio c’è l’italiano Walter Vermi, che lavora all’Università di Brescia dopo essere stato alla Washington University School of Medicine di Sant Louis. “E' stato possibile visualizzare la popolazione neoplastica in stato di dormienza e manipolarla in vivo nei topi – ha spiegato Vermi - traslando questo modello in patologia umana si potranno identificare gli indicatori biologici della fase di equilibrio tumorale, e individuare una finestra terapeutica per mantenere questa fase di equilibrio potenziando l’immunità”. Per osservare direttamente i tumori dormienti i ricercatori hanno iniettato in alcuni topi piccole dosi di metilcolantrene. In alcuni animali il tumore si è sviluppato subito, mentre in altri sono rimaste delle piccole masse circoscritte vicino ai siti delle iniezioni. ‘Spegnendo’ chimicamente alcune componenti del sistema immunitario, le lesioni cancerose si sono sviluppate in veri e propri tumori, fornendo la prova che erano proprio le difese naturali dell’organismo a controllare il cancro. Il prossimo passo della ricerca sarà capire ancora più nel dettaglio e a livello molecolare che cosa succede durante l’equilibrio: “Ad esempio, quando si elimina il sistema immunitario nei topi il tumore si sviluppa in alcuni tessuti ma non in altri – ha spiegato Robert Schreiber, del laboratorio di San Louis che ha coordinato la ricerca - questo suggerisce che il sistema immunitario controlla in maniera diversa i diversi tipi di tessuti”. Queste scoperte potrebbero portare anche a nuovi metodi di diagnosi per scovare tumori dormienti nell’uomo: secondo la teoria verificata dai ricercatori, infatti, l’uomo potrebbe essere ‘portatore sano’ di cellule tumorali in equilibrio con il sistema immunitario, che si scatenano con l’esposizione a sostanze cancerogene o quando le difese dell’organismo si indeboliscono, ad esempio con l’età.

Un piano per le cure palliative
Il Ministero della Sanità è pronto a scendere in campo per garantire l’assistenza a 250 mila malati terminali, oncologici e non e senza distinzione di età. Con l’aiuto di una task force di esperti è stato, infatti, stilato il primo Piano Nazionale per le Cure Palliative che dovrebbe essere presentato ufficialmente nelle prossime settimane mentre si punta ad approvare una legge ad hoc entro quest’anno. Il Piano tocca tutto il pianeta della lotta al dolore: dalla rete delle cure palliative alle terapie per i minori, dall’accreditamento degli erogatori agli aspetti clinici e alla formazione fino alla ricerca e alle regole del terzo settore. Tra i primi passi da compiere la definizione di indicatori e standard strutturali, tecnologici e organizzativi uguali in tutta Italia. La rete (nazionale, regionale e locale) deve comprendere hospice, cure domiciliari, ricoveri ordinari, day-hospital e ambulatori. Non solo: deve essere garantita gratuità e accessibilità a tutti i sistemi diagnostici e terapeutici per il controllo del dolore e dunque va rivisto il sistema tariffario che attualmente è a discrezione della Regione e spesso varia anche all’interno della stessa. Il tutto sarà vigilato da un apposito Osservatorio Nazionale che oltre a controllare il funzionamento della rete monitorerà i bisogni dei malati e dei loro familiari. Altro punto fondamentale del documento la formazione del personale. Andranno definiti ruoli e profili professionali attraverso l’istituzione della disciplina di medicina palliativa nell’elenco delle discipline della dirigenza medica. Un capitolo del piano è dedicato alla ricerca: almeno il 10% dei fondi ex articolo 12, oltre ai finanziamenti del Ministero della Ricerca, andranno investiti in questo settore. Infine, tra le sfide da affrontare per una corretta applicazione del Piano, la realizzazione degli hospice che è in forte ritardo. Ad oggi sono 114, pari a 1.229 posti letto, cioè 0.20 ogni 10 mila abitanti, concentrati soprattutto al nord (Emilia Romagna, Lombardia e Veneto). Secondo gli esperti ne occorrerebbero il triplo (0.60 posti letto ogni 10 mila abitanti). “I fondi per costruire ci sono – ha ricordato il presidente della Società Italiana di Cure Palliative Furio Zucco - ma restano inutilizzati perché manca un modello di sviluppo nazionale”.

Un progetto di rete per chi sopravvive al tumore
In Italia ci sono non meno di 1,5 milioni di persone con una storia di cancro alle spalle, e circa la metà di costoro rientra a pieno titolo nella categoria dei cosiddetti lungosopravviventi, cioè delle persone che hanno avuto la diagnosi almeno cinque anni prima. Molti di essi sono anziani. Eppure l’assistenza, i controlli, il sostegno anche legale e psicologico, la riabilitazione non sono adeguati, perché l’esistente è stato pensato in un’epoca nella quale le persone che sopravvivevano a un tumore erano una rarità. Anche per questo alcuni IRCCS e istituti oncologici hanno dato vita a un progetto che è stato finanziato dal Ministero della salute e che è stato presentato all’ultimo congresso Aiom dal coordinatore nazionale, Umberto Tirelli del Centro di riferimento oncologico di Aviano. Lo scopo del progetto è quello di fare il punto della situazione per poi dare vita a una rete di centri cui i sopravviventi possano afferire e, nei prossimi anni, alla prima vera e propria clinica specializzata, che dovrebbe sorgere ad Aviano.
Il progetto parte da alcune considerazioni fondamentali: per esempio, c’è una grande differenza tra chi sta affrontando la malattia e chi ha superato la fase acuta, quelle delle terapie: se i dati sui malati sono copiosi e riguardano ogni aspetto delle cure, quelli sui “sopravvissuti” sono ancora molto pochi e spesso disomogenei; per questo è indispensabile intensificare gli studi, per arrivare poi a soluzioni di provata efficacia e condivise da tutta la comunità. Un altro punto fondamentale riguarda la condizione di ex malato, che comporta un alto rischio di sviluppare un altro tumore (sia secondario sia riconducibile alle cure), ma anche di andare incontro a disturbi di varia natura, ancora oggi non adeguatamente affrontati, soprattutto in relazione all’età, al sesso, al tipo di neoplasia e di cure fatte per combatterla. Attualmente, inoltre, i “sopravvissuti” sono seguiti negli stessi centri dove sono stati curati, ma si tratta di una soluzione che non sempre è funzionale alle loro necessità e che facilita la dispersione, perché le strutture non sono concepite per seguire un paziente per anni. L’obiettivo principale dei centri attuali è infatti, a ragione, quello di assicurare le migliori terapie possibili, mentre la presa in carico dei sopravviventi ha o dovrebbe avere un scopo del tutto diverso: quello di mantenere alta la qualità della vita e di impostare un adeguato follow up tanto medico quanto psicologico. “In una struttura dedicata ai ‘sopravvissuti’”, ha spiegato Tirelli, “si devono valutare principalmente gli aspetti psicologici, sessuali, metabolici ed endocrini, la condizione cardiaca e quella polmonare, le neoplasie secondarie, e con un’intensa attività di ricerca sugli aspetti biologici legati alla malattia e alle cure effettuate”. “Gli anziani, poi”, ha sottolineato ancora l’oncologo, “rappresentano la grande maggioranza dei lungosopravventi. E’ dunque evidente che le valutazioni sono per lo più da inserire in un contesto di comorbidità e di polipharmacy. Quanto agli aspetti della ricerca, non bisogna sprecare le possibilità offerte dal fatto di avere sott’occhio grandi coorti di persone seguite per anni, che possono costituire un validissimo modello per approfondimenti genetici, immunologici, biologici e sui fattori di rischio”.
Entrando poi nello specifico, Tirelli ha ricordato che, per evitare dispersioni e al fine di elaborare presto linee guida e raccomandazioni specifiche, la ricerca clinica dovrebbe essere incentrata sulle neoplasie che possono essere studiate meglio perché più numerose, caratterizzate da una prognosi non troppo severa e perché curate in modo omogeneo come i linfomi Hodgkin e non Hodgkin, i tumori mammari, colorettali, prostatici, del testicolo, della vescica, dell’utero e dell’ovaio.
Infine, ecco gli obiettivi principali del progetto, cui prendono parte, oltre al CRO, l’Istituto dei tumori IRCCS Giovanni Paolo II di Bari, la Fondazione IRCCS Istituto nazionale dei tumori di Milano, la Fondazione IRCCS Istituto Pascale di Napoli, l’Istituto superiore di sanità, l’Università di Roma La Sapienza e la FAVO:

  1. censire e descrivere i servizi di riabilitazione presenti sul territorio nazionale e quantificarne la presenza in relazione al numero di pazienti e alle loro necessità;
  2. quantificare i costi dei servizi attuali, diretti e indiretti, la fine di delineare le priorità;
  3. organizzare incontri per lo scambio di informazioni e il confronto di tutte le parti interessate al progetto;
  4. entro i primi quattro mesi del 2008, elaborare una prima bozza di linee guida per la gestione degli effetti indesiderati, con un’attenzione particolare ai linfomi, alle neoplasie del tratto genitourinario, a quelle ginecologiche;
  5. iniziare a costruire, a partire da maggio 2008, una “Cancer Survivor Clinic” nella quale si possano verificare modelli di assistenza globale ai “sopravvissuti”;
  6. raccogliere dati sugli aspetti clinici e psico-sociali;
  7. elaborare un questionario da sottoporre ai sopravviventi al fine di conoscerne meglio esigenze e livello di soddisfazione;
  8. progettare, realizzare e distribuire materiale informativo per i sopravviventi e i loro familiari;
  9. elaborare la versione definitiva delle linee guida per la riabilitazione e la prevenzione delle conseguenze a lungo termine delle terapie dei tumori della mammella, gastrointestinali, genitourinari, ginecologici e dei linfomi;
  10. identificare nuovi marcatori biologici (genetici o immunologici) al fine di disporre di strumenti più specifici per valutare sopravvivenza, rischio di recidiva, di progressione e di morte.

Indirizzi utili
Policlinico Universitario Agostino Gemelli
Largo Agostino Gemelli, 8 - 00168 Roma
Centralino: 06 30151
Prenotazioni/informazioni: 06 3551033.0-2
www.policlinicogemelli.it
Neurochirurgia - Prof. Giulio Maira e Massimiliano Visocchi - 06 30151

Istituto Nazionale Neurologico Carlo Besta
VIA CELORIA, 11 - 20133 Milano
Centralino: 02 23941
www.istituto-besta.it
Neurochirurgia I - Dott. Sergio Giombini -02 23942.411-412
Neurochirurgia II - Dott. Carlo Lazzaro Solero - 02 23942.411-412
Neurochirurgia III - Prof. Giovanni Broggi - 02 23942.411-412

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