Esegui una ricerca

Informativa privacy

Chernobyl: 1986-2006

Cristina Mazzantini, N. 8/9 agosto/settembre 2006

Era la mattina del 26 aprile del 1986 quando l’esplosione di un reattore alla centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina, segnò per sempre la vita di milioni di persone. Per evitare quello che poi è diventato “il più grande disastro ambientale” che la storia dell’uomo ricordi, quel giorno alcune migliaia di persone uscirono di casa sapendo, però, che il proprio destino era segnato. Sapevano che li attendeva una morte certa. Anche se indossavano una divisa, non facevano parte di nessun esercito: erano pompieri, piloti d’elicottero, addetti alle gru. Erano gli uomini del primo intervento, quelli che dovevano avvicinarsi al reattore impazzito per seppellirlo nel sarcofago di cemento e piombo nel quale è tuttora rinchiuso. È grazie soprattutto a questi eroi se le conseguenze non sono state ancora più drammatiche. Oggi, a distanza di vent’anni, di quegli uomini resta soltanto un monumento nella cittadina fantasma e una collezione di medaglie dell’epoca sovietica che, per 10 euro, si possono acquistare via Internet. Ai sopravvissuti come i parenti e noi, testimoni del tempo, non rimangono che mille e più domande senza risposte. In quanti non tornarono a casa? Quanti ancora si ammaleranno? Nessuno lo sa e lo saprà mai.
All’epoca, dalle prime crepe nella censura sovietica, che annunciarono o forse provocarono il crollo seguente, affiorò il ridicolo numero di 56 vittime, anche se immediatamente esso fu smentito dall’OMS che parlò di almeno 4.000 decessi, poi confermati nel 2005 dal Forum Chernobyl dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica). Tuttavia è possibile comprendere le ragioni per cui a quei tempi la logica della guerra fredda imponeva all’Occidente di controbattere cifra su cifra, minimizzando l’accaduto. Dopo la caduta del Muro di Berlino, nei due decenni seguenti, però, riesce difficile e intollerabile ammettere che solo in pochi si siano fatti avanti per colmare la scarsità delle informazioni e cercare le verità nascoste. Ci prova, oggi, Greenpeace con un Rapporto dedicato allo studio delle conseguenze sanitarie di quel disastro, i cui effetti purtroppo sono destinati a farsi sentire ancora per molti anni.
"La storia è nota", puntualizza Greenpaece consultando le pagine di giornali e gli scarni documenti ufficiali. "Nella notte del 26 aprile del 1986, si verificò un incidente nell’unità numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl in Ucraina. Si trattava di un reattore del tipo RBMK nel quale, per rallentare i neutroni e favorire la reazione atomica controllata, viene impiegata la grafite, materiale costituito dal carbonio che, quando prende fuoco, è molto difficile da spegnere. L’incidente venne causato da un esperimento condotto dagli operatori per verificare se, in caso di perdita di potenza, la centrale sarebbe stata in grado di produrre sufficiente elettricità per mantenere in azione il circuito di raffreddamento, fino all’entrata in azione dei generatori di sicurezza. Così, il sistema di sicurezza venne deliberatamente disattivato e la potenza fu ridotta fino al 25% della capacità. Qualcosa però s’inceppò e la potenza scese sotto l’un per cento". Dunque la spiegazione del “terribile disastro” può essere imputata sia a un grossolano errore umano che all’utilizzo di un materiale inappropriato, come si legge nel rapporto: "I reattori a grafite hanno la caratteristica di aumentare la potenza della reazione nucleare in caso di aumento della temperatura. Ed è proprio quello che avvenne a Chernobyl quando gli operatori persero il controllo del reattore: si formò una bolla di idrogeno nell’acqua del circuito di raffreddamento e si verificò un’esplosione. Le elevatissime temperature raggiunte dalla grafite incendiata - che continuò a bruciare per nove giorni - fusero le barre contenenti il combustibile, e la centrale cominciò a sprigionare radiazioni su di un’area stimata tra 125 e 146 mila chilometri quadrati dell’allora Unione Sovietica. Per spegnere l’incendio con sabbia e piombo furono necessari quasi duemila voli di elicottero mentre, nel frattempo, le autorità procedevano all’evacuazione forzata di circa 175 mila persone. Alle operazioni di contenimento, proseguite fino al 1989, partecipò un numero consistente di “liquidatori”, sui seicento/ottocentomila. Quanti di loro si siano poi ammalati è ancora una questione controversa. Secondo le agenzie governative di Ucraina, Bielorussia e Russia, sarebbero morti circa 25 mila liquidatori, ma molti studi danno numeri decisamente più alti".
Oggi, fra cinque e otto milioni di persone vivono ancora in un’area destinata a restare contaminata dalle radiazioni per molti anni a venire. Sebbene il tempo di “emivita” o dimezzamento del Cesio 137 sia di circa trent’anni, le conseguenze radiologiche e sanitarie dell’incidente si sentiranno per i secoli a venire. Va sottolineato che il disastro non è naturalmente rimasto confinato alle aree evacuate al momento della tragedia. Le nubi di materiale radioattivo, infatti, sono state trasportate dai fenomeni metereologici su metà del pianeta, ma soprattutto in Europa settentrionale. Infatti il Cesio 137 non ha contaminato soltanto le tre repubbliche dell’ex Unione Sovietica ma ha raggiunto, seppure in dosi ridotte, ben 14 nazioni come: Austria, Svezia, Finlandia, Norvegia, Slovenia, Polonia, Romania, Ungheria, Svizzera, Repubblica Ceca, Italia, Bulgaria, Repubblica Moldava e Grecia. Eppure ben pochi di questi Paesi hanno condotto seri studi sulle conseguenze sanitarie della nube funesta.
Per cercare di colmare questa lacuna - e celebrare in un certo modo il triste anniversario - Greenpeace ha raccolto i contributi di una sessantina di scienziati e ricercatori delle tre repubbliche per stilare il documento intitolato: “Chernobyl, il costo umano di una catastrofe”, che scredita le prime, ottimistiche stime. La più recente ricerca epidemiologica, pubblicata in collaborazione con l’Accademia Russa delle Scienze, ad esempio, smentisce uno studio dell’Aiea che nel 2005 aveva preso per buoni i quattromila morti delle veline sovietiche. Secondo le stime di Greenpeace, invece, sarebbero almeno duecentomila le persone morte fra il 1990 e il 2004 in seguito all’incidente, e solo prendendo in esame la popolazione delle tre repubbliche interessate. Del resto, non è stata soltanto l’Aiea a essere cauta con le stime né il disinteresse riguarda la sorte dei liquidatori, anche se è proprio attraverso lo studio di questa categoria che si può avere un quadro abbastanza preciso degli effetti delle radiazioni a lungo termine.
Dal rapporto di Greenpeace emerge, infatti, chiaramente che Chernobyl ha causato un incremento considerevole dei casi di tumore. I liquidatori della Bielorussia, ad esempio, mostrano un’elevata incidenza di tumori ai reni, alla vescica e alla tiroide nel periodo 1993-2003. La leucemia, invece, è considerevolmente alta nei liquidatori ucraini, negli adulti bielorussi e nei bambini delle aree più contaminate. Tra il 1990 e il 2000, l’incremento dei tumori in Bielorussia è stato del 40% mentre, in Russia, i casi di cancro nelle regioni fortemente contaminate di Kaluga e Bryansk sono stati superiori a quelli registrati nell’intero Paese. Nella regione ucraina di Zhytomir, invece, il tasso di cancro tra i giovani adulti è aumentato di tre volte dal 1986 al 1994.
L’esposizione alla radioattività è collegata anche alle malattie del sangue. Lo studio più approfondito, utilizzato dal Rapporto, è stato portato avanti in Ucraina dove si sono registrati aumenti consistenti di arteriosclerosi precoce, malattie coronariche e malattie del sistema circolatorio. Nei territori contaminati queste patologie sono accresciute dalle 10 alle 15 volte nel periodo tra il 1988 e il 1999. Inoltre, in un particolare lavoro transfrontaliero, si è visto un aumento di condizioni emorragiche nei nuovi nati esposti alle radiazioni. Un’altra ricerca ancora si concentra, invece, sui danni al sistema endocrino: nel 1993 più del 40% dei bambini della regione di Gomel, in Bielorussia, ha sofferto di un ingrossamento della tiroide. In Ucraina, invece, danni a questa ghiandola sono stati osservati nel 35,7% dei 3.019 adolescenti di Vinnitsk e Zhytomyr che avevano fra i 6 e gli 8 anni al tempo dell’incidente. In questa sperimentazione è stata anche osservata una reazione funzionale della tiroide subito dopo l’incidente, seguita dall’emergere di tiroiditi croniche autoimmuni negli anni Novanta. In generale, la morbilità relativa al sistema endocrino e al sistema immunitario è raddoppiata rispetto al resto della popolazione bielorussa.
Com’è noto all’ambiente medico scientifico, le radiazioni comportano anche il rischio di alterazioni del patrimonio genetico. Puntualmente il Rapporto registra, infatti, che la frequenza di alterazioni cromosomiche nelle aree contaminate dell’Ucraina e della Bielorussia è fino a tre volte più alta del valore medio mondiale. In Russia, la frequenza delle alterazioni cromosomiche è aumentata di 2-4 volte tra gli abitanti delle aree contaminate, mentre un’indagine su un gruppo di residenti in Ucraina, analizzati prima e dopo l’incidente, mostra un incremento delle anomalie cromosomiche di 6 volte. Inoltre sembra che tale fenomeno possa essere trasmesso alla prole. Del resto, aberrazioni cromosomiche che si ritengono collegate all’incidente sono state osservate anche in aree lontane come Austria, Germania, Inghilterra e Norvegia. Stesso quadro devastante si registra a proposito delle malattie del sistema uro-genitale che, dal 1988 al 1999, sono più che raddoppiate nelle popolazioni che ancora vivevano nei territori più contaminati dell’Ucraina. Infertilità, impotenza, alterazioni strutturali nei condotti seminali e disturbi nella produzione di sperma sono stati registrati in tre quarti degli uomini esaminati nella regione russa di Kaluga. E ancora. Nei gruppi esposti alle radiazioni soprattutto in Ucrania, più della metà delle donne ha sofferto di complicazioni durante la gravidanza, mentre nel gruppo di controllo gli effetti collaterali si presentavano solo nel 10% dei casi. Va sottolineato che, mentre c’è carenza di studi internazionali organici, esistono interessanti ricerche locali condotte in tutta l’Europa occidentale e nella penisola scandinava. Luoghi dove si è registrato un aumento degli aborti spontanei, presumibilmente collegato all’esposizione delle radiazioni di Chernobyl.
C’è chi dice che questo elenco di orrori faccia parte del passato. C’è chi, mettendo da parte il “piccolo” problema dello smaltimento delle scorie che abbiamo frettolosamente seppellito nei Paesi più poveri del mondo, sogna una nuova stagione nucleare. C’è perfino chi, come l’Enel, si presta ad acquistare - per ultimarle - due centrali slovacche che erano già vecchie ai tempi di Chernobyl. A costoro va ricordato che gli effetti della radioattività sono destinati a continuare per decenni e forse per generazioni. E non solo. Dalla maggiore letteratura scientifica è emerso che la contaminazione di Chernobyl corrisponde a circa 100 volte l’effetto infestante combinato delle bombe di Hiroshima e Nagasaki. Poi le ripercussioni delle esplosioni in Giappone sono ben documentate, a differenza delle conseguenze di Chernobyl che continuano a essere ipotetiche. E ancora. Come se non bastasse, il numero esatto di coloro che rischiano di sviluppare condizioni mediche gravi non sarà noto fino al 2016, e magari oltre.

L’aspartame non è pericoloso
Un recente studio epidemiologico, redatto dal National Cancer Institute (Nci) in Usa, ha confermato le conclusioni raggiunte da ricerche precedenti, secondo cui non esistono legami tra consumo di aspartame e leucemie, linfomi e tumori del cervello.
Lo studio, finanziato dal governo e presentato al Congresso dell’American Association of Cancer Research svoltosi a Washington, raccoglie le valutazioni effettuate su oltre 500 mila persone, uomini e donne, di età compresa tra 50 e 69 anni in un periodo di cinque anni. Gli scienziati, come riferito da una nota del Nci, non hanno scoperto alcuna prova che indicasse un maggiore rischio di leucemia, linfoma o tumore del cervello tra persone che facevano uso di aspartame nelle bevande, rispetto a quelle che non lo utilizzano. "Dal nostro studio", spiegano i ricercatori d’Oltreoceano, "risulta che il consumo di bevande contenenti aspartame non aumenta il rischio di tumori maligni del sistema ematopoietico o del cervello".
La ricerca non fa altro che confermare gli esiti di tre studi realizzati su modelli animali dal National Toxicology Program statunitense, per valutare l’aspartame come possibile causa di tumori. Per queste indagini, finanziate e gestite dal governo, e condotte secondo le cosiddette Good Laboratory Practices, i ricercatori hanno fatto consumare l’aspartame a topi allevati con il preciso scopo di essere particolarmente sensibili agli agenti cancerogeni. Ma i risultati, come speravano gli scienziati, hanno indicato in modo univoco che non c’era evidenza di attività tumorale dell’aspartame.

Un nuovo farmaco per “riaccendere” geni utili
Un farmaco, recentemente approvato dall’americana Food and Drug Administration, è in grado di riattivare alcuni geni coinvolti nella sindrome mielodisplastica e potrebbe costituire una nuova prospettiva terapeutica per alcune leucemie. Lo studio è stato presentato a Milano al II Convegno Internazionale del IFOM-IEO sui tumori.
Si chiama “terapia epigenetica del cancro” e rappresenta una delle possibilità oggi più interessanti per “correggere”, farmacologicamente, alcune anomalie genetiche coinvolte nell’insorgenza di alcune, malattie neoplastiche. Una prospettiva tanto incoraggiante e promettente che, alcuni mesi fa, ha portato all’approvazione da parte della FDA di un farmaco. Questa molecola è in grado di rimettere in funzione una serie di geni il cui “spegnimento” è la principale causa della Sindrome Mielodisplastica. La MDS è una malattia in cui il midollo osseo non funziona normalmente e che può progredire fino a leucemia mieloide acuta. A parlare di terapia farmacologica e dell’approccio epigenetico è stato il professor Peter Jones, del Norris Cancer Center della University of Southern California (Los Angeles), presente a Milano. Il professore americano ha spiegato: "Si sa che esistono molte malattie dei geni, dovute all’accumolo di “guasti”. Tali guasti si traducono in gravi malfunzionamenti nei meccanismi cellulari". Ha poi puntualizzato: "Tra questi guasti, alcuni sono determinati effettivamente da “errori” nella scrittura del codice genetico contenuto nel DNA. Se la sequenza di basi ACTG (Adenina, Citosina, Timina e Guanina) che costituisce la base del gene è sbagliata (se, ad esempio, al posto di una C si trova una G) la proteina che viene montata seguendo le istruzioni del DNA è diversa da quella normale e quindi non svolge correttamente la funzione a cui era predisposta. O ancora: se la sequenza di basi di un gene è stata “cancellata”, la proteina non sarà affatto prodotta. Ma c’è un tipo di guasto nel quale a un gene “scritto” correttamente si legano chimicamente delle sostanze che lo rendono inattivo. Questo guasto è detto “silenziamento epigenetico” (epi vuol dire “sopra”), perché non comporta cambiamenti nel codice genetico".
In pratica, il gene ha l’interruttore spento. Se supponiamo che il gene spento sia un oncosoppressore, cioè un gene la cui normale attività è di proteggere le cellule dalla degenerazione tumorale, è facile capire come la possibilità di indurre la revisione di questo tipo di guasto sia interessante nelle terapie anticancro. Ora, lo studio condotto da Jones e colleghi ha dimostrato proprio che l’interruttore si può riaccendere tramite una terapia farmacologica. La molecola di cui ha parlato il professor Jones si chiama “Dacogen”, ed è stata provata efficacemente in una serie di trial clinici condotti, sulla base di risultati ottenuti nei laboratori di Los Angeles, nel trattamento della sindrome mielodisplastica a MDS (nel campione trattato durante la fase III dei trial clinici è stata osservata una risposta del 21%). La MDS è un insieme di disordini del midollo osseo per il quale, fino a pochissimo tempo fa, non esistevano terapie efficaci. La malattia causa una serie di sintomi e complicazioni, tra cui anemia, emorragie, infezioni e debolezza e può progredire in leucemia mieloide acuta. "Questo farmaco", ha chiarito il professor Jones, "è in grado di riattivare una serie di geni silenziati epigeneticamente nella MDS e quindi di ripristinare le funzioni di controllo della proliferazione, sensibilità ai farmaci, adesione cellulare (è uno dei fattori che ostacolano il controllo metastatico, ndr), risposta all’interferone e risposta immunitaria, tutti meccanismi che nella MDS sono alterati o non funzionanti".

Link utili
www.chernobyl.it
www.fisicamente.net/index-500.htm
www.greenpeace.it/archivio/nuke/cern.htm
www.progettohumus.it

Torna ai risultati della ricerca