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Convegno al Cnr di Roma dellAssociazione Moby Dick
Lintervento psicologico in oncologia
Paola Sarno, N. 4 aprile 2006
Sostenere psicologicamente i pazienti oncologici e, quando superano la malattia, aiutarli a stare nella guarigione, superando lansia dei controlli e delle possibili ricadute. È il lavoro volontario svolto dallassociazione Moby Dick, che si occupa anche della formazione degli operatori (psicologi, medici, infermieri), spesso vittime della sindrome di burn-out, come ha detto il presidente di Moby Dick, lo psicologo Maurizio Cianfarini: "I primi sintomi di questa sindrome particolare e sibillina sono il cinismo e il distacco nei confronti dei malati, mascherati dietro lesperienza". Il presidente dellassociazione è intervenuto al convegno sul tema Lintervento psicologico in oncologia: dai modelli di riferimento alla relazione con il paziente, svoltosi recentemente presso laula magna del Cnr a Roma e promosso dalla stessa associazione.
"Stiamo seguendo oltre 60 pazienti nei nostri spazi ambulatoriali, dove li incontriamo ogni settimana; lo scorso anno abbiamo tenuto circa 1.200 colloqui", ha affermato lo psicologo, sottolineando che Moby Dick è una delle poche realtà del volontariato in Italia che offre un sostegno psicologico ai malati nella fase terminale della malattia oncologica. "Arrivano pazienti da Roma e Provincia, ma anche da altre regioni: una signora prendeva ogni settimana il pullman alle 5 di mattina, partendo dalle Marche, perché non trovava questo servizio nel suo territorio", racconta il dottor Cianfarini. Inoltre lassociazione si occupa della formazione degli operatori: lo scorso anno 400 persone hanno partecipato ai corsi, arrivando da tutta Italia. "Vogliamo crescere come associazione, ma abbiamo bisogno di maggiori contributi economici: andiamo avanti con lautofinanziamento e con qualche sostegno ricevuto dalla Regione Lazio e da qualche Fondazione", osserva il presidente della onlus, chiedendo anche il contributo di "operatori che si formino e poi garantiscano la loro presenza durante liter della malattia dei pazienti, cioè per almeno 1 o 2 anni, fino alla morte o alla guarigione".
Moby Dick sostiene anche le famiglie dei malati di cancro, consentendo allo stesso tempo al paziente, lespressione delle proprie emozioni: "Spesso il malato e la famiglia si proteggono a vicenda, evitando di manifestare il proprio dolore; nella relazione terapeutica, invece, possono parlarne".
Gli interventi psicologici su bambini e adolescenti
Allintervento introduttivo del presidente di Moby Dick, ha fatto seguito quello del dottor Gianni Biondi, direttore dellUnità Operativa Psicologia Pediatrica dellOspedale Bambino Gesù di Roma e Palidoro (Rm), che ha spiegato le modalità operative adottate nel famoso centro pediatrico romano. "Siamo attivi dal 1980 e abbiamo un protocollo operativo dal 1994", ha detto il dottor Biondi. "Dal 2004, inoltre al Bambino Gesù sono attivi per i piccoli pazienti oncologici lambulatorio, il day hospital, reparti per bambini e genitori, attività di formazione per medici, infermieri, operatori sanitari e volontari e dopo 8-9 anni è ripresa anche lattività scientifica".
Comè organizzato il lavoro? "Lo psicologo appartiene a un servizio e non è lo psicologo del reparto. Piuttosto è il referente di quel reparto ed è quindi meno influenzato dalle dinamiche del reparto stesso, mantenendo una propria precisa identità. Inoltre, si preferisce che lo psicologo abbia anche altri incarichi (ambulatorio, day hospital, ecc.) perché possa ampliare ed affinare la sua esperienza". Poi, il dottor Biondi è entrato nel merito del protocollo osservato dallOspedale Bambino Gesù nella comunicazione della diagnosi. "È necessario considerare le capacità individuali dei genitori, le capacità come coppia, i tempi di elaborazione. Quindi la sola risposta tecnica non è sufficiente. Una cattiva comunicazione della diagnosi, può portare i genitori alla ricerca disperata di una cura in giro per il mondo o attivare altri rischi: il blocco della progettualità, quello della comunicazione, linvasione della malattia, della paura, dellansia, dellangoscia. Daltro canto la disinformazione e lo scarso sostegno portano alla solitudine - che di fatto è lemozione più sentita - e alla depressione. Altro rischio per chi comunica la diagnosi è quello di essere troppo paternalista. Il primo elemento che serve, invece, è quello dellaccoglienza. È inoltre, importante considerare anche i fratelli del bambino ammalato, decidere come e quando informarli, come aiutare a riequilibrare lintervento educativo, come rassicurarli nel loro bisogno di attenzione. E il piccolo ammalato? Il tumore tocca tutti i principali bisogni del bambino. Chi lo informa? La scelta è fra sistema anglosassone (diretto), latino (indiretto), oppure si può decidere seguendo lindicazione dei familiari di non informarlo proprio. Tuttavia è necessario sapere che il bambino sospettoso mette in atto ambivalenti trappole per sapere se si può fidare, mentre in gioco cè la sua sofferenza psicologica, relazionale e fisica. E per gli adolescenti, poi, il discorso si fa ancora più pesante, perché possono mettere in atto processi regressivi o, al contrario di esasperata maturità, oscillando fra difesa e progettualità. Per questo ritengo che vadano preparati per esempio a un intervento invasivo e quindi al dolore per ridurre la paura, lansia e aumentare la loro compliance. Insieme a ciò accoglienza, ascolto, e continuità diventano basilari, perché senza queste componenti la solitudine del malato aumenta moltissimo. Il silenzio, la vicinanza, la presenza delloperatore aiutano moltissimo.
Ci possono essere anche da affrontare problemi di aggressività del malato, ma loperatore deve sapere che non si tratta di un attacco sul piano personale, ma di reazioni difensive di un individuo che soffre. Altro problema, poi - ha aggiunto il dottor Biondi - è quello della guarigione, perché il bambino percepisce che ogni sei mesi deve fare una risonanza magnetica di controllo e che in quei giorni lumore dei suoi parenti cambia". Infine, nella fase terminale della malattia al Bambino Gesù vengono fatte riunioni fra medici formali e informali per lasciare più spazio a una visione umana della situazione. "È in questo contesto che ci si pongono le problematiche relative allaiuto da dare alla famiglia e si prospetta quale tipo di itinerario fare insieme a loro", ha spiegato, ancora il dottor Biondi.
Lesperienza delloncologo
La professoressa Patrizia Pellegrini, ordinario di Oncologia presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dellUniversità La Sapienza di Roma, che si è definita oncologo da sempre e figlia darte, ha sottolineato subito come " le risposte dei pazienti di fronte a una diagnosi infausta possono essere variabili: si va dallo stupore, alla negazione, allincredulità, perché spesso il responso arriva in pieno benessere fisico. Il paziente spesso non accetta, dice che il medico non ha capito, a volte se ne va via. Altre volte, invece, viene preso dalla disperazione".
"Noi oncologi dobbiamo saper mediare continuamente, in una situazione che cambia continuamente, che richiede capacità di ascolto e di adattamento continuo. Anche il silenzio serve dopo una diagnosi infausta, anche solo essere vicini con uno sguardo. Non esiste uno standard. Sicuramente non bisogna avere fretta, ma tanta pazienza e capacità di condivisione, più che bravura nel dare informazione tecnica e fredda", ha ribadito la professoressa Pellegrini. "E molta capacità di mediazione serve anche nel rapporto con i familiari, che è sempre difficile. Secondo la medicina legale, infatti, noi dovremmo informare solo il familiare. In teoria il paziente potrebbe anche non sapere. Tuttavia il familiare è spesso una persona con sue problematiche e non vuole che il paziente sappia per sue paure, per sue difficoltà". Poi la professoressa Pellegrini ha analizzato diverse situazioni in cui loncologo si trova a operare: lambulatorio di follow up, la realtà del ricovero ordinario, lesperienza di day hospital. "Nel primo caso si tratta di un malato che viene per fare il suo controllo nel tempo. Ogni controllo, tuttavia, anche per il paziente guarito è una spada di Damocle sulla testa e noi dobbiamo considerare che le attese per ogni esame e per il risultato finale sono infinite ed estenuanti. Nelle corsie ospedaliere ci troviamo, invece, con i malati nellultima fase della vita. È il momento più difficile, quando il paziente fa il bilancio della propria esistenza e, anche per il medico è uno dei momenti più intensi, che fanno crescere di più, perché lo portano a contatto con la realtà della morte che sempre cerchiamo di rifuggire. Dobbiamo rapportarci a quel momento anche solo stando vicino al malato. A volte vicino è più importante della medicina per trasmettere sicurezza e tranquillità. Questi sono i preziosi momenti di silenzio.
In day hospital il rapporto è ancora diverso", ha aggiunto la professoressa Pellegrini, "perché ogni giorno si incontrano persone diverse, di religioni, etnie diverse che impongono un adattamento costante alle situazioni, nellassoluto rispetto dellaltro.
Vivere accanto al malato oncologico è duro", ha ammesso, infine, la professoressa Pellegrini, "ma se ci si pone nella posizione di mettersi al servizio del malato, di chi ha bisogno di te, può essere anche unesperienza che può dare moltissimo".
La formazione degli operatori
Importante è anche rivalutare il rapporto tra medico e paziente, ha ricordato Anna Rita Ravenna, psicoterapeuta presso lIstituto Gestalt di Firenze: "Questo aspetto è stato svalutato; invece occorre preparare gli operatori a una relazione intersoggettiva e allinterdisciplinarietà, al lavoro in una équipe integrata".
"Ciò che serve è migliorare lincontro in termini di dialogo e di empatia, nel tempo del qui e ora. Serve soprattutto un dialogo che implichi ascolto, che non preveda risposte precostituite, in una posizione in cui laltro possa sorprenderci. Chi sarà laltro oggi? Come il mio presentarmi a lui modificherà la relazione? Quella relazione intersoggettiva in cui il malato, o meglio la persona è soggetto con tante competenze di cui il medico ha assolutamente bisogno. E allora bisogna parlare di umanizzazione. Di unumanizzazione che serve per assimilare competenze altre: saper analizzare e comprendere il comportamento umano nelle sue componenti intellettuali, emotive e istintive.
Alla prassi scientifica dei protocolli oncologici standardizzati con lobiettivo della cura", ha insistito la dottoressa Ravenna, " è necessario affiancare operatori che compiano atti psichici creativi, che rendano dicibile il vissuto interiore del paziente. Solo così la relazione acquista il senso dellautenticità e si intesse di presenza, ascolto e condivisione.
Il burn out
La dottoressa Anna Costantini, responsabile del Servizio di Psiconcologia preso lOspedale S. Andrea della II Facoltà di Medicina dellUniversità La Sapienza di Roma, ha incentrato il suo intervento su una delle sindromi più insidiose e frequenti per chi lavora con i malati oncologici: il cosiddetto burn-out. "Dai dati di letteratura emerge, infatti, che tra il 29 e il 38% degli oncologi mostra livelli di sofferenza paragonabili a quelli dei loro pazienti", ha denunciato la dottoressa Costantini, "nonostante lavorare in oncologia sia fonte anche di grosse soddisfazioni". "Il processo di adattamento al lavoro ha, tuttavia alti costi, e prevede diversi passaggi: per arrivare a un adattamento emozionale profondo ci vogliono tempi lunghi. È necessario, nel frattempo, riconoscere i sintomi del burn-out, che è la fase ultima di un processo difensivo che si mette in atto di fronte a condizioni di lavoro stressanti: i primi segni si manifestano con uno stato di esaurimento psicofisico", ha spiegato la responsabile del Servizio di Psiconcologia dellOspedale S. Andrea, "poi arriva una fase di distacco emozionale, una sorta di cinismo, di insensibilità verso i malati, in cui si disinveste nella relazione e, infine, giunge un senso di non realizzazione professionale, di inadeguatezza, di autosvalutazione". Circa un terzo degli oncologi riporta alti livelli di burn-out nella sua vita professionale e uno dei fattori di rischio riconosciuti è il carico di lavoro, ma le ultime ricerche dimostrano anche che le persone più preparate sulla comunicazione con il paziente oncologico, rischiano meno il burn-out. Anche le personalità del cosiddetto tipo hardiness, che gestiscono meglio lo stress tendono ad essere meno vittime del burn-out. Importantissima è la buona atmosfera nel reparto: poter condividere anche in modo informale il lavoro, avere scambi affettivi con i colleghi e, inoltre, essere persone credenti sembra essere di grande aiuto nel prevenire il rischio di burn-out.
Il sostegno per i familiari in lutto
Soli-insieme è il primo gruppo on-line di auto-mutuo aiuto per superare un lutto, promosso dallassociazione culturale Gruppo eventi. In Italia esistono circa 40 gruppi di mutuo aiuto che aiutano a elaborare la perdita di una persona cara. Del nuovo gruppo nato in rete, ha parlato al convegno, organizzato al Cnr di Roma dallassociazione Moby Dick, la psicoterapeuta Livia Crozzoli Aite, presidente dellassociazione Gruppo Eventi. "Avanza una forma di privatizzazione della morte: mancano i rituali e la società non riconosce più il lutto attraverso segni esteriori, che in passato erano il vestirsi di nero, lindossare un bottone o una fascia scura", ha rilevato la dottoressa Crozzoli Aite, stigmatizzando il fatto che, alle persone colpite da un lutto, si chieda un veloce recupero, senza elaborazione del dolore della perdita subita. "Tornano al lavoro presto, assumono ansiolitici e antidepressivi; si tratta di persone e famiglie che vivono in solitudine, ma che vorrebbero confrontarsi con il dolore. Di fronte allintolleranza sociale nellascoltare il dolore a lungo, il gruppo diventa un luogo in cui poter esprimere la disperazione, senza infastidire gli amici e senza colpire i membri più fragili della famiglia, ad esempio i bambini. In questa fase si vogliono proteggere i propri cari". I gruppi sono composti da una decina di persone e per lo più da donne (gli uomini sono circa il 30%), che vivono fasi diverse dellelaborazione del lutto che li ha colpiti (dalla perdita della persona cara è passato un arco di tempo che va da un mese a un anno): dal cordoglio iniziale alla rabbia della fase reattiva, fino alla depressione e alla fase persecutoria.
In particolare, il gruppo on-line di auto-mutuo aiuto è stato pensato per quelle persone che vivono in piccoli paesi e in luoghi dove è difficile costituire gruppi fisici; così lassociazione ha creato in rete uno spazio di condivisione per le persone che hanno subito la perdita di una persona cara e significativa e sentono lesigenza e il desiderio di comunicare e condividere il proprio dolore e le proprie esperienze con persone che vivono una simile condizione di sofferenza. "Partecipare a un gruppo di auto-mutuo aiuto consente di rompere la solitudine e il silenzio con cui si vive in genere lesperienza del lutto, potendosi esprimere liberamente in uno spazio riservato e protetto e recuperando una forma di sostegno reciproco e solidale, utile e spesso necessario per affrontare i cambiamenti interni ed esterni, che si teme di non saper reggere o di non poter realizzare", ha informato la psicoterapeuta. Lutilizzo di Internet permette ai partecipanti di potersi esprimere in qualsiasi momento ne sentano il bisogno e in qualsiasi luogo vivano. La condivisione si realizza con linvio di messaggi e-mail rivolti a tutti i membri del gruppo di cui si fa parte e che comprende al massimo 8 persone. La partecipazione al gruppo è gratuita e linserimento può avvenire in qualsiasi momento, mantenendo, se lo si desidera, lanonimato. "Ciò che si richiede è una partecipazione responsabile nei confronti degli altri partecipanti, nel senso della continuità e della frequentazione dello spazio comune epistolare, in modo che ciascuno si senta accolto e compreso nelle difficoltà che sta vivendo", informa lassociazione. Prima di accedere al gruppo è previsto un breve scambio preliminare tramite telefono o e-mail con la dottoressa Livia Crozzoli Aite, per una conoscenza reciproca. Dopo questo primo contatto sarà possibile accedere al gruppo on-line, che avrà come facilitatori Feliciano Crescenzi e Ida Fornataro, membri dellassociazione, i quali faranno conoscere le modalità daccesso alla posta elettronica. Per partecipare occorre inviare un e-mail o telefonare presso la sede di Gruppo Eventi.
In sperimentazione 400 nuovi farmaci per i bambini
Quattrocento nuovi farmaci o molecole in fase di sperimentazione per proseguire la battaglia contro i tumori che insorgono in età pediatrica (0-18 anni). Farmaci mirati, frutto anche della ricerca genetica, in grado di colpire il più possibile solo le cellule tumorali. È questo il messaggio positivo che esce dal convegno New drugs in pediatric oncology, cui hanno partecipato la scorsa settimana a Bologna, oltre agli studiosi italiani, anche numerosi ricercatori statunitensi. Lincidenza del tumore in età pediatrica - ha spiegato il professor Franco Locatelli, presidente dellAIEOP (Associazione Italiana Ematologia ed Oncologia Pediatrica) e responsabile dellOncoematologia del S.Matteo di Pavia - è di 1.400 nuovi casi, vale a dire 13-14 casi ogni 100.000 bimbi per anno. In testa per frequenza cè la leucemia linfoblastica acuta, seguita dai tumori cerebrali, dalla leucemia mieloide e dai linfomi. Due terzi dei pazienti hanno una remissione della malattia o hanno una lunga sopravvivenza con una buona qualità della vita. I nuovi farmaci nelle diverse fasi di sperimentazione, ha osservato il professor Andrea Pession, responsabile dellOncologia pediatrica del S.Orsola di Bologna, possono migliorare lapproccio alle diverse tipologie di tumore. E dare qualche speranza in più, ha aggiunto la professoressa Susan Blaney del Cancer Oncology Group, anche per alcuni tipi di tumore cerebrale, sui quali finora i risultati terapeutici sono stati molto deludenti. Ma anche in questi casi bisognerà attendere 5 o 6 anni per un impiego terapeutico consolidato. Ma il convegno ha rappresentato anche loccasione per fare il punto sulla situazione terapeutica in Italia e per dare alcuni messaggi ai genitori che si trovano purtroppo a dover fare i conti con un figlio malato di tumore. In Italia sono 62 i centri, aderenti allAIEOP, in grado di offrire un approccio adeguato in tutta la penisola ad eccezione di Molise e Basilicata. In quasi tutte le regioni cè un centro definito Copre, Centro Oncologico Pediatrico di Riferimento Regionale che fa da nodo della rete. La nostra esperienza ci dice - ha aggiunto Pession - che un bimbo ammalato di tumore ha più possibilità se viene curato in un centro specializzato pediatrico e non in un reparto per adulti perché la sua è una patologia specifica e "non può essere trattato come un adulto in miniatura". I centri di eccellenza sono molti, specializzati per alcuni tipi come la divisione dellIstituto Tumori di Milano che tratta solo i tumori solidi o il Rizzoli di Bologna per i tumori dellosso mentre i reparti pediatrici degli ospedali universitari sono in grado di affrontare linsieme delle patologie in un approccio multidisciplinare. Il bambino sopra i 10 anni va sempre informato, hanno detto gli studiosi italiani. Daccordo su questo i colleghi Usa. Fra i 14 ed i 18 anni è giusto avere il suo consenso anche rispetto al peso delle terapie che gli vengono somministrate, spesso portatrici di effetti collaterali pesanti. "I bimbi sono più forti di quello che noi pensiamo - ha detto Locatelli - ed hanno più paura delle cose che vengono loro nascoste. Il bambino si rende ben conto di avere una malattia grave, ma proprio sulla base di questo collabora con i medici e spesso protegge i genitori. Come? Non verbalizzando - hanno raccontato ancora Pession e Locatelli - le sensazioni sgradevoli che prova, perché si rende conto che i genitori fanno molta fatica a sopportare langoscia di morte che un tumore comporta".
Le regioni spendono solo il 40% dei fondi per cure palliative
«Le cure palliative in Italia stentano a decollare, e non tanto per un problema legislativo, visto che dal 2001 sono state inserite nei livelli essenziali di assistenza (LEA). Il problema è che le Regioni, a sette anni dalla legge 39, che aveva stanziato 208 milioni per la realizzazione degli hospice, ne hanno speso non più del 40%. E questo anche se il Ministero della Salute ha approvato nel 2002-2003 più di 200 progetti, molti dei quali rimasti sulla carta». La denuncia viene da Furio Zucco, presidente della Società italiana di Cure palliative (SICP), intervenuto a un convegno sul progetto di assistenza per bambini non guaribili. «Solo la settimana scorsa - ha proseguito - la Conferenza Stato-Regioni ha approvato il meccanismo per cui le cure palliative non solo dovranno essere applicate nei LEA, ma anche valutate. Anche se dai tre hospice del 2000, si è saliti a 120 nel 2005, la quota programmata di 250 è ancora lontana. Si spera di raggiungerla nei prossimi cinque anni con circa 3.000 posti letto in tutta Italia. Secondo le indicazioni del Ministero della Salute, dovrebbe essere garantita assistenza domiciliare continua e gratuita a 180.000 malati terminali, il 75% dei quali da inserire in un programma di cure palliative. In realtà intere regioni ne sono prive». Le cure palliative comprendono però non solo gli hospice, ma anche lintera rete territoriale. «Tuttavia solo il 2,5% delle strutture italiane vede lintegrazione tra hospice e cure domiciliari. Non bisogna dimenticare poi - ha spiegato Zucco - che questo tipo di cure non si riferisce solo ai malati terminali di tumore. Dei 250.000 pazienti inguaribili in Italia, 160.000 sono oncologici, 90.000 colpiti da altre patologie, e 11.000 bambini. La diffusione di queste reti di assistenza è comunque a macchia di leopardo in tutto il Paese». Eppure lo sviluppo di questo metodo di cure avrebbe indubbi vantaggi anche per le tasche del nostro sistema sanitario. «Il costo dellassistenza domiciliare - ha aggiunto - compresi farmaci, presidi, ausili, reperibilità 24 ore su 24, è di 100 euro al giorno, contro 260 euro per posto letto in strutture ospedaliere e 280 per quelle extraospedaliere, mentre il costo medio in ospedale è di 350 euro. In media, i posti letto per struttura sono 15-20 e la permanenza media è di 18-19 giorni, mentre è di 30-40 giorni lassistenza domiciliare. Se si utilizzasse un servizio di questo tipo, la necessità di ricoveri ospedalieri scenderebbe al 3-4%, contro lattuale
40%». Esiste inoltre un problema di carattere formativo-professionale per questi operatori, ha concluso Zucco, tanto che «insieme al Ministero dellIstruzione stiamo pensando a un master professionalizzante in cure palliative».
LItalia è fanalino di coda anche per quel che riguarda i farmaci oppiacei. Solo lo 0,2% della spesa sanitaria è investito in queste medicine, mentre nella classifica mondiale per il loro consumo siamo al centesimo posto nel mondo. A sostenerlo è sempre Furio Zucco, presidente della Società italiana di Cure palliative (SICP). «Nonostante il loro utilizzo sia gratuito per la popolazione - ha spiegato - e le loro prescrizioni siano diventate più semplici, il nostro Paese è agli ultimi posti nel consumo. Si tratta di un problema culturale e anche di paura. Spesso si identificano gli oppiacei solo con la morfina e si teme che possano diventare una droga. Molti
sanitari ancora non ne conoscono bene lutilizzo. Però è importante usarli nellassistenza ai malati terminali. È come se si curasse un malato di diabete senza insulina. Dal 2005, comunque, in Italia sono disponibili tutti i farmaci che prima erano presenti solo allestero e si sta lavorando per rendere ancora più semplici i ricettari».
Scoperto un nuovo meccanismo dazione degli antitumorali
Uno studio dellIstituto di Genetica Molecolare del Consiglio Nazionale delle Ricerche ha identificato le conseguenze, sulle cellule, dei danni prodotti al DNA da farmaci contro il cancro, aprendo la strada a nuove terapie. La ricerca è stata pubblicata recentemente su Cancer Research.
Lanalisi della risposta cellulare ai danni sul DNA è essenziale per poter comprendere la tossicità e lefficacia delle attuali terapie antitumorali, che nella maggior parte dei casi agiscono proprio sul DNA. Un importante passo avanti in questa direzione arriva dal gruppo di ricerca coordinato dalla dottoressa Alessandra Montecucco, presso lIstituto di Genetica Molecolare (Igm) del Consiglio Nazionale delle Ricerche a Pavia, che ha studiato proprio la risposta cellulare al trattamento con farmaci impiegati nella terapia dei tumori. I risultati ottenuti durante la caratterizzazione della risposta al trattamento delle cellule con farmaci impiegati nei protocolli di chemioterapia, sono stati pubblicati sullultimo numero della rivista Cancer Research.
Con lo studio dellIgm-Cnr viene rilevato per la prima volta, che "una particolare classe di farmaci antitumorali (che produce rotture del DNA, mediate da enzimi chiamati DNA topoisomerasi), ha un effetto sulle cosiddette fabbriche replicative, che sono particolari strutture presenti nel nucleo delle cellule e sono deputate alla replicazione del DNA", spiega la dottoressa Montecucco. Questeffetto sulle fabbriche replicative dipende da particolari meccanismi di controllo della crescita delle cellule, detti checkpoint. Dopo il trattamento con i farmaci, se i checkpoint svolgono la loro normale funzione, le fabbriche replicative spariscono, impedendo la proliferazione delle cellule tumorali.
Laver identificato i meccanismi che controllano la scomparsa delle fabbriche replicative, consentirà di individuare nuovi farmaci da impiegare in terapia. Inoltre, questa ricerca ha permesso di sviluppare un test rapido, affidabile e visivo che può essere applicato per lo screening di nuovi farmaci e per lottimizzazione delle strategie terapeutiche da utilizzare sui pazienti affetti da malattie genetiche che coinvolgono i sistemi di checkpoint. Questi pazienti, infatti, presentano unelevata predisposizione allinsorgenza di tumori e rispondono diversamente alle terapie antitumorali.
La ricerca costituisce un importante risultato dellIstituto di Genetica Molecolare del Cnr di Pavia, che ha già visto, nelle scorse settimane, la pubblicazione di altre due ricerche: il 15 dicembre scorso, sempre su Cancer Research, i risultati della ricerca diretta dalla dottoressa Chiara Mondello sulla cute di un ultracentenario, e sullultimo numero di Molecular Cell, un articolo sullosservazione dello splicing alternativo, curato dal dottor Giuseppe Biamonti.
LIgm-Cnr, nella persona del direttore Silvano Riva, ha anche ottenuto un finanziamento dalla Fondazione Cariplo per le ricerche tese a comprendere come alterazioni in geni pathways - deputati allintegrità del menoma - possano influenzare il fenotipo patologico, lefficacia delle terapie tumorali e per la progettazione di nuove molecole bioattive che permettano di disegnare nuove strategie per eliminare selettivamente le cellule tumorali.
Indirizzi utili
Moby Dick Associazione per le Unità di Cura Continuativa onlus
Tel. 06.85358905
E-mail: moby-dick@tiscali.it; sito web: www.psiconcologia.it
Per la rivista on-line: psiconcologia@tiscali.it
Per sostenere lassociazione: BANCA DI ROMA c/c n. 4502/32 ABI 3002 CAB 3374
POSTE ITALIANE c/c n. 37246543
Gruppo Eventi Via Fogliano, 24 00199 Roma
Tel. 06.86207554
E-mail: info@gruppoeventi.it; sito web: www.gruppoeventi.it
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