|
Un nuovo aiuto per l'acromegalia
Minnie Luongo, N. 4 aprile 2005
Esempi storici della malattia sono rappresentati dal gigante Golia, o dal famoso campione di pugilato Primo Carnera. Essa fu descritta inizialmente da Giovanni Verga nel 1864, che la denominò “prosopectasia” per lo spiccato prognatismo che la caratterizza. Verga, però, non aveva capito la causa, che invece fu suggerita nel 1886 dal francese Pierre Marie, che descrisse due casi con la medesima connotazione clinica e definì tale condizione “acromegalia”. Solo nel 1909 l’americano Harvey Cushing individuò in un tumore ipofisario la causa della malattia.
Le caratteristiche della malattia
Spiega Ezio Ghigo, professore ordinario di Endocrinologia all’Università degli Studi di Torino: «Il termine acromegalia deriva dalla lingua greca e significa letteralmente estremità (akros) grandi (megas). Si tratta di una malattia endocrina cronica debilitante, che si caratterizza per l’ingrossamento di mani, piedi e delle ossa facciali, benché questi siano solo alcuni dei numerosi segni che si sviluppano in questa malattia, causata, nel 95 percento dei casi, da un adenoma ipofisario e, molto raramente, da alcune disregolazioni organiche extra-ipofisarie».
Ma che cosa è l’ipofisi? «È una ghiandola endocrina che produce diversi ormoni che regolano numerose attività dell’organismo. Quando questa ghiandola si accresce in maniera incontrollata, si sviluppa un “adenoma ipofisario”. A seconda dell’ormone prevalente, l’adenoma viene identificato con una precisa sindrome clinica; in caso contrario, sarà definito non-funzionante. Lo sviluppo dell’acromegalia è causato dall’ormone della crescita (sigla GH: dall’inglese Growth=crescita e Hormone=ormone), una sostanza che nel bambino è finalizzata alla corretta crescita. Quando lo sviluppo dell’individuo non è ancora ultimato, l’esordio della malattia avviene con i caratteri del gigantismo e, nell’età adulta, dell’acromegalia. Dunque, il GH nell’adulto provoca l’ingrossamento dello scheletro e degli organi il cui sviluppo è già terminato».
L’aumento di volume si verifica anche a livello degli organi interni (compresi fegato, rene e cuore) con particolare compromissione morfologica e funzionale a livello cardiovascolare, ipertrofia muscolare associata, però, a marcata astenia e nevriti da compressione. Nelle donne sono frequenti i disturbi del ciclo mestruale. Altri sintomi che accompagnano la malattia sono cefalea, parestesie alle mani (dovute a sindrome del tunnel carpale), astenia, sudorazione eccessiva (iperidrosi), apnea notturna e russamento (entrambi causati dall’ostruzione dalle vie aeree conseguente all’ingrossamento della lingua e all’ipertrofia della laringe). L’aumento della mortalità è causato soprattutto da malattie cardiovascolari, cerebrovascolari e respiratorie.
I pazienti sono a rischio anche per l’insorgenza di alcuni tumori. Secondo gli studi, il 45 percento dei pazienti acromegalici sviluppa polipi intestinali; gli effetti di questa condizione sulla mortalità non sono però ancora noti. L’acromegalia può colpire persone di ogni età, ma si riscontra più frequentemente negli adulti tra i 30 e i 40 anni.
L’importanza di una diagnosi precoce
Continua il professor Ghigo: «La prima decisione da prendere è ricorrere al consulto di un medico, per la corretta interpretazione dei disturbi e la pronta diagnosi. Una migliore definizione della malattia potrà derivare da un consulto specialistico endocrinologico. La descrizione del malessere e dei cambiamenti notati, se possibile in maniera assolutamente oggettiva, sarà fondamentale. Il passo successivo viene effettuato da alcune procedure diagnostiche. Innanzitutto, dal dosaggio di GH (2-3 prelievi) e di IGF-I, valutazione generale dei parametri di laboratorio, compresa la glicemia, e una valutazione dei livelli di GH dopo somministrazione per os di 75-100 g di glucosio. A questi esami ematici vanno aggiunti la campimetria visiva e l’esame della sella turcica (non più la radiografia, ormai obsoleta, bensì la TAC o la risonanza magnetica con contrasto)».
Il trattamento dell’acromegalia
Lo scopo principale della terapia è la normalizzazione dei livelli di GH e IGF-1, la rimozione o la riduzione della massa tumorale, la prevenzione di eventuali recidive e la significativa riduzione delle complicazioni cardiovascolari, polmonari e metaboliche, oltre all’attenuazione dei sintomi.
Il trattamento dell’acromegalia si basa in particolar modo sul controllo dell’IGF-1. Questa proteina è considerata il miglior indicatore dell’attività della malattia nei pazienti con acromegalia: circa il 50 percento dei soggetti apparentemente in buon controllo per i livelli di GH possono avere, per contro, livelli di IGF-1 elevati e quindi la malattia in fase attiva. Le concentrazioni di IGF-1 sono direttamente correlate a quelle del GH ma, a differenza di questo, i livelli di IGF-1 rimangono relativamente costanti nell’arco delle 24 ore: ciò aumenta la correttezza nelle misurazioni.
La terapia degli adenomi ipofisari GH-secernenti può essere chirurgica, radiologica o farmacologica.
Chirurgia e terapia radiante
Poiché l’acromegalia è spesso dovuta a un tumore benigno (adenoma) dell’ipofisi, il trattamento chirurgico è la terapia di prima scelta. Circa il 70 percento dei pazienti presenta macroadenomi e il 30 percento microadenomi (diametro inferiore a 1 cm) ipofisari. La chirurgia permette di ottenere un buon controllo biochimico della malattia nel 70-90 percento dei pazienti con microadenoma. L’efficacia della terapia neurochirurgica è assai più modesta, invece, in caso di macroadenoma, con una percentuale di guarigione che non supera il 40 percento dei casi.
Nel caso la terapia chirurgica sia controindicata (per esempio, in un tumore profondamente infiltrato) o non abbia successo (per impossibilità di rimuovere totalmente l’adenoma), viene utilizzata la radioterapia sull’ipofisi. Questa terapia consiste nell’applicazione di radiazioni ad alta frequenza per distruggere le cellule neoplastiche e ridurre le dimensioni del tumore. È un trattamento efficace, ma ha il limite di riportare le concentrazioni di GH alla normalità solo dopo molti anni: di solito, il decremento dei livelli ematici di GH ha inizio da uno a tre anni dopo l’applicazione e spesso la secrezione di GH si normalizza solo dopo 10 anni dalla terapia. Per questo motivo, spesso, è necessario instaurare una terapia farmacologica nell’attesa che quella radiante manifesti i suoi effetti. Inoltre, la terapia radiante comporta frequentemente un deficit di secrezione ormonale da parte dell’ipofisi (ipopituitarismo iatrogeno, ossia conseguente all’intervento terapeutico), che rende necessario un trattamento ormonale sostitutivo. Relativamente poco comuni risultano, invece, le complicazioni da tumori maligni secondari e problemi cerebrovascolari.
La terapia farmacologica
Se la terapia chirurgica non permette di controllare la malattia, si passa alla terapia farmacologica. I farmaci utilizzati sono gli agonisti della dopamina, gli analoghi della somatostatina e gli antagonisti del recettore dell’ormone della crescita.
Antagonisti del recettore dell’ormone della crescita
Per i pazienti affetti da acromegalia non efficacemente trattati con gli analoghi della somatostatina, una possibilità terapeutica è offerta da una nuova classe di farmaci che forniscono un modo innovativo di affrontare la malattia, in quanto agiscono con meccanismo diverso coinvolgendo altri distretti dell’organismo rispetto all’ipofisi.
Questa nuova classe di farmaci è costituita da antagonisti dei recettori del GH (GHRA), che ne bloccano l’attività nei tessuti periferici.
Diversamente dai farmaci dopaminergici e dagli analoghi della somatostatina, che agiscono tramite un’inibizione della secrezione di GH e, conseguentemente, di IGF-1, l’efficacia di questi farmaci è indipendente dalla secrezione del GH. La nuova strategia consiste nell’instaurare una condizione di resistenza periferica all’azione biologica del GH, anche quando questo è secreto in eccesso; conseguentemente si assiste a una spiccata riduzione della sintesi e secrezione di IGF-1.
Un nuovo farmaco
Capostipite degli antagonisti del recettore dell’ormone della crescita (GHRA) è Pegvisomant, un farmaco d’origine ricombinante, frutto della ricerca Pfizer, che si lega selettivamente ai recettori per il GH a livello periferico, impedendo di conseguenza la liberazione dell’IGF-1 e dunque la crescita abnorme dei tessuti, tipica dell’acromegalia.
Nello studio “Long-term treatment of acromegaly with Pegvisomant, a growth hormone receptor antagonist” (The Lancet 2001; 358: 1754), il 97 percento dei 90 pazienti trattati con questo farmaco ha evidenziato una riduzione significativa dei livelli di IGF-1. In uno studio su 38 persone con acromegalia, la molecola ha dimostrato di essere altamente efficace, tanto da normalizzare i livelli di IGF-1 nel 92 percento dei casi. Un altro studio, randomizzato e in doppio cieco versus placebo, su 112 pazienti con acromegalia, prevedeva la somministrazione del farmaco per 12 settimane (tutti i pazienti provenivano da altri trattamenti). Alla fine della terapia, i pazienti ai quali è stato somministrato il farmaco hanno mostrato una riduzione dell’IGF-1 e dei sintomi sensibilmente maggiore rispetto ai pazienti trattati con placebo. Alla dose massima (20 mg) di Pegvisomant, l’82 percento dei pazienti ha mantenuto livelli normali di IGF-1 fino alla 12^ settimana.
Oggi Pegvisomant è indicato per il trattamento dei pazienti con acromegalia che hanno mostrato una risposta inadeguata alla chirurgia, al trattamento radiante e per i quali un’appropriata terapia farmacologica con analoghi della somatostatina si è dimostrata inefficace nel normalizzare le concentrazioni di IGF-1 o è risultata non tollerata. Viene somministrato tramite iniezioni sottocutanee; dopo una dose iniziale di 80 mg, la terapia continua con una dose di 10 mg al giorno. A seguito dei controlli la dose quotidiana viene calibrata in base alla risposta del paziente.
Designato dagli enti regolatori a livello mondiale “farmaco orfano”, Pegvisomant risulta molto ben tollerato e, come emerge dagli studi, non promuove la crescita tumorale.
ANIPI ITALIA
ANIPI, Associazione Nazionale Italiana Patologie Ipofisarie, è una Onlus (Organizzazione non lucrativa di utilità sociale). È nata circa sette anni fa per aiutare e sostenere gli ammalati e, in particolare, quelli affetti da tumori ipofisari, i quali, per la rarità di tali patologie, si ritrovano a patire, anche per anni, sofferenze piccole e grandi, talvolta senza comprendere la loro natura.
L’associazione ha per obiettivo principale l’informazione e la divulgazione di conoscenze scientifiche di facile accesso, affinché queste non restino solo patrimonio degli specialisti, ma, attraverso una giusta comunicazione, entrino nel bagaglio formativo di tutti i pazienti e loro familiari, dei medici e del personale paramedico. Le altre principali finalità dell’associazione sono:
- informare i pazienti con patologie ipofisarie e le loro famiglie su diagnosi, cure, centri di riferimento;
- favorire la tutela dei diritti dei pazienti e delle loro famiglie (diritto alla salute, riabilitazione, assistenza, istruzione, formazione professionale, inserimento lavorativo, sport e tempo libero, qualità della vita);
- organizzare manifestazioni e attività per diffondere le problematiche delle malattie ipofisarie;
- costituirsi come soggetto unitario nei confronti delle istituzioni al fine di essere maggiormente rappresentativi;
- aumentare l’interesse nei confronti delle malattie dell’ipofisi tra la popolazione e la comunità medica;
- favorire lo scambio di informazioni e di esperienze fra le varie associazioni;
- promuovere e finanziare la ricerca sui tumori e le malattie della ipofisi.
L’associazione, inoltre, si prefigge il compito di porsi come sostegno psicologico per coloro che non riescono ad accettare la patologia e le conseguenze invalidanti che la stessa procura e di essere mediatrice di un rapporto equilibrato tra medico e paziente. L’associazione Nazionale, che pubblica una rivista semestrale dal titolo “Patologie ipofisarie”, coordina le associazioni regionali (info@anipi.org).
Torna ai risultati della ricerca
|