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Donna: il tumore dell'ovaio

Cristina Mazzantini, N. 4 aprile 2005

«È la qualità dell’intervento chirurgico a determinare il destino delle donne colpite da carcinoma dell’ovaio». Così hanno dichiarato gli oncologi-chirurghi presenti a Roma per il 17° Congresso nazionale della Società Italiana di Oncologia Ginecologica (SIOG). Si tratta di un’affermazione importante e coraggiosa, sostenuta peraltro dalla letteratura scientifica internazionale. Questa ha infatti accertato che la neoplasia dell’ovaio ha la tendenza a crescere velocemente e rende assai improbabile l’evidenziazione di eventuali forme pretumorali. Non solo, ad allarmare i medici è un altro dato: nel 70 percento dei casi questo carcinoma viene diagnosticato in fase avanzata. E ancora: in un terzo circa delle malate presenta lesioni inasportabili. A tale proposito il professor Pierluigi Benedetti Panici, presidente in carica della SIOG, aprendo i lavori ha affermato: «Una metanalisi, pubblicata sul Journal of Clinical Oncology nel 2002, ha confermato che proprio il residuo del tumore (vale a dire il livello di radicalità chirurgica ottenuta con l’intervento) è il massimo fattore prognostico in termini di sopravvivenza». Il nostro esperto ha poi precisato: «Nello specifico, analizzando oltre 6.800 pazienti affette da carcinoma ovarico, si è calcolato che a ogni aumento del 10 percento di asportazione ottimale di malattia si associa un incremento del 5,5 percento di sopravvivenza delle stesse donne». Tali risultati sono stati attestati da un altro studio randomizzato internazionale, condotto su 423 donne, coordinato proprio da Benedetti Panici e in fase di pubblicazione sul Journal of the National Cancer Institute, che ha eletto la chirurgia quale centro nevralgico del trattamento di questo tumore.
Il carcinoma ovarico è la terza forma più comune di tumore ginecologico e la quarta causa di morte per cancro nelle donne negli USA. In Italia, nel 2003, sono stati registrati circa 4.500 nuovi casi e quasi 3.000 morti dovuti a questo tipo di tumore. Colpisce in prevalenza persone in peri e post-menopausa con un picco massimo di incidenza fra i 55 e i 65 anni. L’80 percento di questi tumori origina dall’epitelio, cioè dal tessuto che riveste l’ovaio, mentre nelle giovani sono più frequenti i tumori germinali.
«Persino nel trattamento dei tumori del collo dell’utero e della vulva, la radicalità chirurgica si è rilevata parte fondamentale nella prognosi delle pazienti», ha puntualizzato ancora il presidente della SIOG. «Infatti sono stati pubblicati studi che evidenziano l’imprescindibile importanza di una modulazione della radicalità dell’intervento chirurgico in base ai fattori di rischio, in modo da minimizzare il tasso di complicanze, senza in alcun modo compromettere il risultato terapeutico. Ciò è stato reso possibile anche grazie all’ausilio di valutazioni sia preoperatorie, come la Pet-scan e la Pet-Tac, sia in corso d’intervento, come gli esami istologici estemporanei su tessuto congelato», ha proseguito il professor Benedetti Panici. «L’altra fondamentale innovazione sta nell’eseguire, sia gli interventi mini-invasivi sia quelli classici radicali, utilizzando tecniche sempre meglio definite e standardizzate». Il motivo? «Tali metodiche hanno sulla donna un impatto molto minore in termini di morbilità e di qualità di vita», ha risposto l’oncologo-chirurgo. «Oggi, infatti, l’esecuzione di un intervento radicale comporta una degenza postoperatoria breve, anche di soli 4 giorni, rispetto ai due mesi del passato». Un problema giustamente sentito, inoltre, è la progressiva e costante sensibilizzazione verso i trattamenti conservativi, con un’attenzione particolare alla preservazione della fertilità, soprattutto nelle giovani donne affette da tumori ginecologici. «Una novità importante in campo chirurgico è la laparoscopia», ha affermato il professor Massimo Franchi, segretario nazionale della SIOG. «La tecnica, tradizionalmente utilizzata per eliminare le cisti ovariche e per intervenire nelle gravidanze extrauterine, oggi si affaccia prepotentemente nel panorama della ginecologia oncologica con ottimi risultati nel trattamento dei più importanti tumori ginecologici. Soprattutto ovaio, endometrio e alcuni casi di carcinoma del collo dell’utero», ha proseguito Franchi, specificando: «Il chirurgo si avvale di uno strumento ottico che viene inserito grazie ad alcune piccole incisioni. L’intervento risulta quindi poco invasivo e più preciso (l’immagine provieniente dall’apparecchio risulta, infatti, ingrandita, ndr). Vengono limitati fortemente i possibili effetti collaterali, il dolore postoperatorio e i giorni di degenza, a parità di efficacia. La laparascopia presenta un vantaggio ulteriore: nel tumore dell’ovaio, per esempio, l’équipe medica può intervenire ripetutamente per monitorare la situazione e lasciare intatto l’ovaio».
Grazie a queste nuove tecniche chirurgiche gli specialisti stanno indirizzandosi verso interventi sempre meno aggressivi. Oggi è possibile, infatti, in caso di tumore dell’endometrio e dell’ovaio in giovane età, evitare l’asportazione totale dell’apparato riproduttore, con le conseguenze fisiche e psicologiche che questo genere d’intervento comporta. Le novità risultano tanto più importanti se si considera l’impossibilità di ricorrere, per i tumori ginecologici (eccetto quello del collo dell’utero), a forme di screening efficace. Il motivo è stato spiegato in precedenza e riguarda la velocità di crescita, soprattutto per quanto riguarda il tumore dell’ovaio. Perciò gli esperti sono concordi nel consigliare una visita annuale, associata preferibilmente a un’ecografia transvaginale. Per quanto riguarda il tumore dell’endometrio, le tecniche di screening proposte non hanno ottenuto una validazione ufficiale. Per la diagnosi precoce del tumore dell’endometrio è importante che il medico e la paziente tengano sotto controllo, soprattutto dopo la menopausa, eventuali sanguinamenti sospetti. Al fine di incentivare la ricerca, unico strumento in grado di contrastare le malattie neoplastiche, al congresso della SIOG è stata ufficializzata la costituzione del “GOG” (Gynecological Oncology Group). «Il GOG è un organismo già operativo da anni negli USA con il compito di coinvolgere negli studi clinici i centri di ricerca americani», ha spiegato il professor Francesco Raspagliesi, prossimo presidente SIOG. «Nato sotto l’egida della SIOG e in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità, ha gli stessi obiettivi dell’omologo statunitense: promuovere la ricerca clinica nell’ambito oncologico ginecologico, fornire supporti economici, statistici e know-how. L’ISS contribuisce a selezionare gli studi clinici più importanti e a pubblicizzarli all’interno del territorio nazionale e internazionale. In questo modo si eviterà che più gruppi di ricerca eseguano studi con finalità analoghe. L’ISS offrirà anche un aiuto economico, cercando di ampliare le possibilità degli studiosi italiani di accedere alla ricerca di base. Nel corso del prossimo congresso verranno presentati i primi progetti per la valutazione e la possibile adesione».

Il test per l’HPV
A Roma, in occasione del Congresso della Società Italiana di Oncologia Ginecologica, gli esperti hanno ricordato che dopo anni di intensa ricerca, che ha impegnato tutta la comunità scientifica mondiale, si può sapere addirittura con anticipo se ci sia maggior rischio di ammalarsi di cancro dell’utero. Infatti, è ormai riconosciuto che questo tumore è causato principalmente da un particolare tipo di virus chiamato HPV, o virus del papilloma umano. Quindi, le strutture vitali del virus (il Dna) vengono praticamente riscontrate in tutti i tumori del collo dell’utero e in tutte le lesioni precancerose esaminate in ogni parte del mondo. Finora sono stati individuati 70 tipi diversi HPV (di cui almeno 13 correlati al cancro dell’utero), divisi in due gruppi: più aggressivi e meno virulenti. Questo virus determina una comune infezione virale, trasmettibile soprattutto per via sessuale. La maggior parte delle persone è portatrice inconsapevole (e senza disturbi) di HPV. A volte la sua presenza non è evidenziata né dal Pap-test né dalla colposcopia. Per questo, ai due esami fondamentali va aggiunto sempre il test per l’HPV, in grado di rilevare la presenza del virus prima che vi siano segni visibili di variazione nelle cellule del collo dell’utero. Ciò significa che le donne a rischio di tumore possono essere identificate più precocemente e controllate più assiduamente. Numerosi studi hanno dimostrato il valore del test HPV nelle seguenti condizioni:

  1. come integrazione nello screening di donne con più di 35 anni. È molto probabile che la presenza di virus HPV aggressivi, in donne oltre i 35 anni, sia indice d’infezione persistente ad alto rischio di degenerazione verso lesioni gravi del collo;
  2. quando si hanno risposte del Pap-test dubbie o lievemente alterate, le cui cause a volte, non sono chiare nemmeno con la colposcopia;
  3. per un controllo nel tempo (il cosiddetto follow up) di donne che hanno ricevuto trattamenti medici o chirurgici per lesioni del collo: in questo caso il test HPV è davvero indispensabile.

Dal salice piangente transgenico un principio attivo di cura
Da un principio attivo presente in alcune salicacee, il taxolo, si potranno ricavare composti in grado di trasportare altre molecole curative dei tumori, moltiplicandone l’efficacia. La sperimentazione è in corso presso il Dipartimento di Biogenetica dell’Hebrew University di Gerusalemme e lo studio è stato pubblicato sul bollettino interno dell’università.
«Diversi componenti a base di taxolo», afferma Jerome de Badalint, coordinatore del programma di studio, «sono già comunemente impiegati come chemioterapici a effetto generalista.
La nostra ricerca tende a moltiplicare l’effetto mirato del taxolo associato ad altri farmaci oncosoppressori. La molecola di questa sostanza si presta naturalmente a essere fortemente micronizzata. Con un processo biotecnologico altamente innovativo», sottolinea lo studioso, «siamo riusciti ad aumentare le sue capacità di trasporto di altri medicamenti, a tutto beneficio dell’efficacia dei trattamenti contro il cancro».

Per il tumore al seno una nuova molecola: il letrozolo
Nelle donne in postmenopausa affette da tumore al seno in fase iniziale, con recettori ormonali positivi, il letrozolo ha dimostrato una maggiore protezione contro il rischio di recidive rispetto al tamoxifene, ad oggi considerata la terapia standard. A evidenziarlo sono i risultati dello studio BIG 1-98, presentati per la prima volta a St. Gallen (Svizzera) nel corso della IX International Conference Primary Therapy of Early Breast Cancer.
«I risultati di questo studio sono di grande importanza per la maggior parte delle donne affette da tumore al seno», ha affermato Beat Thürlimann, responsabile dello studio BIG-1 98. «Letrozolo ha ridotto il rischio di recidiva di oltre il 19 percento rispetto al tamoxifene. Adesso disponiamo di un’ulteriore opzione terapeutica per migliorare la prognosi nelle donne affette da tumore al seno con recettori ormonali positivi. Dopo la chirurgia, seguita quando serve, da chemioterapia o radioterapia, l’inclusione di letrozolo nello schema terapeutico rappresenta un passo avanti per il trattamento delle pazienti. Ulteriori approfondimenti sono necessari per ottimizzare l’impiego di tale molecola allo scopo di valutarne sicurezza e tollerabilità a lungo termine e per ottenere dal suo utilizzo maggiori benefici terapeutici».
BIG 1-98 è stato condotto sotto l’egida del Breast International Group, coordinato e gestito dall’International Breast Cancer Study Group (IBCSG) ed è stato supportato dalla Novartis.
Nello studio sono stati messi a confronto:

  • cinque anni di tamoxifene contro cinque anni di letrozolo;
  • tamoxifene per due anni, seguito da letrozolo per tre anni;
  • letrozolo per due anni, seguito da tamoxifene per tre anni.

I risultati dello studio forniranno importanti indicazioni, relativamente all’identificazione della migliore sequenza, con inibitori dell’aromatasi, nelle donne in postmenopausa con tumore al seno in fase iniziale positivo per i recettori ormonali.
BIG 1-98 è uno studio multinazionale di Fase III, in doppio cieco, randomizzato, multicentrico, condotto in 27 paesi, che coinvolge oltre 8.000 donne in postmenopausa, affette da tumore al seno in fase iniziale. Dopo un follow up mediano di 26 mesi, lo studio ha dimostrato che rispetto al tamoxifene, letrozolo riduce il rischio di questi eventi del 19 percento. Tra le 4.003 pazienti del gruppo letrozolo, l’84 percento era libero da malattia rispetto all’81,4 percento delle 4.007 pazienti del gruppo tamoxifene.
È stata inoltre riscontrata una differenza fra letrozolo e tamoxifene per quanto riguarda gli effetti collaterali.
Più numerosi per tamoxifene, in termini di:

  • eventi tromboembolici;
  • sanguinamenti vaginali che causano più frequentemente anomalie endometriali e richiedono l’esecuzione di biopsie endometriali.

Più numerosi per letrozolo, in termini di:

  • fratture ossee;
  • ipercolesterolemia di grado lieve.

Eventi cardiovascolari e ictus sono stati leggermente più frequenti, anche se rari, con entrambi i trattamenti.
Il cancro al seno in fase iniziale è definito come un tumore localizzato all’interno della mammella e/o con coinvolgimento dei linfonodi. Nel mondo, ogni anno circa 800.000 donne sono colpite dal tumore al seno in fase iniziale. La principale terapia per il tumore al seno in fase iniziale prevede l’intervento chirurgico per l’asportazione del tumore e del tessuto circostante, seguita da una terapia standard post intervento (adiuvante) che prevede generalmente un trattamento radioterapico e/o chemioterapico, seguito per la durata di cinque anni dal trattamento con tamoxifene, considerato fino a oggi la terapia di riferimento per le donne in postmenopausa.

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