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A proposito di crimini di pace

Maela Officio, N. 4 aprile 2005

Dopo le vittime di Seveso e di Marghera, continua la lista nera di quelle multinazionali che si sono rese colpevoli della morte di molti lavoratori loro dipendenti, e che non hanno mai riscattato il loro “crimine di pace”.
Il primo è il caso del petrolchimico di Gela. Il petrolchimico, di proprietà dell’Eni, nato per volontà di Enrico Mattei, prevedeva la creazione di un polo di sviluppo nel triangolo Catania-Augusta-Gela che avrebbe dovuto creare sinergia con l’industria locale e con le attività agricolo-artigianali in quel territorio.
Tutto finì con l’uccisione di Mattei e il petrolchimico di Gela, come nella migliore tradizione italiana, rimase una cattedrale nel deserto. Una cattedrale con l’occupazione in caduta libera, in quanto nel giro di pochi anni si è passati da circa 12.000 a 4.500 addetti, comprese le industrie dell’indotto.
È proprio l’Eni, che in questa vicenda ha avuto una posizione defilata, di basso profilo, è il principale responsabile. Lo stesso Ente che ha sfruttato il petrolio, inquinato l’ambiente e sconvolto l’ecosistema costiero, senza attivare minimamente il progetto originario!
Dopo mezzo secolo di industrializzazione senza sviluppo, in cui ha accumulato enormi profitti, sotto la pressione di una legislazione europea più stringente, medita di andarsene, prima o poi, lasciando una città senza alternative occupazionali reali.
Così è accaduto, per esempio, che dalla magistratura siano state contestate ai dirigenti del petrolchimico ben undici violazioni delle norme vigenti. Le violazioni riguardano il trattamento delle acque, la sicurezza dei serbatoi installati e il monitoraggio degli inquinanti. Tra questi, il “pet coke”, un rifiuto derivante dalla lavorazione del petrolio e contenente metalli pesanti cancerogeni, non potrebbe essere utilizzato come combustibile per la centrale del petrolchimico.
Ma il nostro governo attuale ha prontamente risolto il problema: un nuovo decreto riafferma che il rifiuto “pet coke” non è più un rifiuto, bensì un combustibile, eliminando il problema con il plauso del sindacato. Peccato per quei morti per tumore, concentrati in tutta l’area circostante il petrolchimico, che hanno fatto registrare le percentuali più alte della media nazionale per decessi causati da neoplasia!
Gli studi a riguardo
A tal proposito, secondo uno studio dell’OMS, nel comune di Gela si sono registrati tassi significativi di decessi per tumore dello stomaco e per tumore del colon. Inoltre, nell’intera area, si è verificato un aumento del rischio di contrarre tumori polmonari, tra gli uomini delle generazioni più giovani. Lo studio suggerisce, inoltre, che gli effetti sulla salute legati a esposizioni professionali nei decenni passati non vadano sottovalutati.
Ancora una volta, però, si è preferito non vedere il problema e soprattutto non vedere i colpevoli. Cittadini e lavoratori, allora, dovrebbero rivolgere le loro rimostranze verso l’unico responsabile della vicenda, l’Eni, a cui sono state contestate anche evasioni delle norme di sicurezza dei serbatoi di stoccaggio. È dal profitto che debbono derivare i capitali per investire in sicurezza e per la bonifica delle aree inquinate.
Sui controlli ambientali, in queste zone come in tutte le altre parti del Paese, dobbiamo domandarci se le varie ARPA (Agenzie Regionali Protezione Ambiente) siano all’altezza e, soprattutto, se siano messe in condizione di svolgere efficacemente le proprie mansioni.
Un’alleanza tra lavoratori e cittadini, tra sindacati e ambientalisti, potrebbe portare all’elaborazione di un progetto alternativo rispetto alla chimica italiana, che parta dalla volontà di disinquinare i danni del padronato, che deve essere inchiodato alle proprie responsabilità, come l’Eni in questo caso.
È evidente che al padronato non può essere delegata la cura dell’ambiente. Il ricatto salute-lavoro può essere affrontato solo con l’unione su obiettivi specifici tra cittadini e lavoratori, al fine di evitare che il vero responsabile glissi le proprie responsabilità.
Si deve partire da una politica diversa in tema di inquinamento del territorio, affinché non si debba morire per lavorare.
S.I.A.P.A
L’altro caso vede protagonista la S.I.A.P.A., società italo-americana per prodotti antiparassitari, appartenente al gruppo Caffaro.
Sembra che, nell’arco di molti anni, sia stato troppo facile e frequente, per i dipendenti della multinazionale “ecologica”, che produce disserbanti e antiparassitari, morire di cancro ai polmoni, alla vescica, al fegato, e poi essere “cancellati” come per incanto dagli elenchi consegnati dall’azienda chimica alla USL Rm B che ha iniziato a indagare sul caso.
I dati allarmanti
Nel marzo 2000, infatti, si è arrivati all’accertamento della morte per tumore di ben quarantadue operai impegnati nel “pronto intervento disinfestazioni”. Negli ultimi anni, più di venti operai sono morti per tumore o malattie a carico del fegato.
Ciò che si celava dietro ai sospetti è stato poi dimostrato grazie alle indagini.
Gli operai morti avevano un’età compresa tra i 47 e i 61 anni ed erano tutti addetti alle squadre di disinfestazione e al montaggio di macchinari per l’erogazione di diserbanti.
Le denunce fatte dagli operai sopravvissuti fanno emergere i rapporti tra i dirigenti e gli addetti nelle fabbriche. In una di queste denunce, per esempio, si legge che nelle campagne di disinfestazione effettuate per conto della S.I.A.P.A. non vi era nessuna precauzione nell’uso del materiale adoperato per l’opera di disinfestazione. Appena la direzione sanitaria della S.I.A.P.A si accorgeva che qualcuno degli operai addetto a queste squadre si ammalava, lo destinava ad altro incarico oppure lo licenziava. Dopo un breve periodo dal licenziamento, gli operai che manipolavano i diserbanti, però, morivano di tumore (cancro al polmone o al fegato, per esempio). Candidamente gli stessi dirigenti della società hanno ammesso che nell’azienda veniva usato fino agli anni Ottanta il DDT, sostanza vietata dal 1969!
La fabbrica della morte ha lavorato per decenni a pieno ritmo, poi, una volta affiorati i primi casi, ha cominciato a cambiare nome e ragione sociale: lo stabilimento produttivo di Tor Tre Teste, a Roma, è stato chiuso nel 1995, a seguito di una vendita giudiziale effettuata sotto il controllo del tribunale fallimentare e la ditta è passata di mano. Nel 1997 è stata acquistata dalle Industrie Chimiche Caffaro spa e, secondo i responsabili, l’acquisto non ha riguardato la Divisione che operava nel campo della disinfestazione e del disserbo, mentre la ditta S.I.A.P.A ha mutato la denominazione sociale in Agricap spa. Così, con la camaleontica capacità di fusione, ridenominazione, mutazione, propria delle multinazionali, anche il balletto delle responsabilità si fa sempre più grottesco e intricato. L’unica cosa certa è che degli uomini sono morti, e sono morti male, “arrabbiati come cani”, come ricorda la vedova di uno di loro. Sono morti che non contano, morti talmente ininfluenti nel grande gioco del profitto da poter essere cancellati, con un colpo di spugna, perfino dall’elenco dei dipendenti, come se non fossero mai esistiti.
Altre storie
Di storie come quella della S.I.A.P.A., nel Lazio, ce ne sono a decine. Di morti da dimenticare addirittura centinaia. E solo grazie alle denunce degli operai, alcuni di questi assassinii sono stati portati alla luce. È stato così per l’amianto alla Sofer di Pozzuoli o alla Ex-Sacilit di Volla o all’AVIS di Castellamare di Stabia o alla ILVA di Taranto; o per il PVC della Montedison di Castellanza e per la storia dell’Enichem di Manfredonia.
Purtroppo, però, vi sono altre realtà in cui impera l’omertà, il silenzio, la paura di perdere il posto di lavoro, anche a danno della salute. È così infatti per l’Unicem di Guidonia, il più grande cementificio d’Europa, dove la lavorazione dei materiali destinati alla produzione di cemento ha causato un alto tasso di tumori e malattie derivate. Stessa cosa per la Ondulit di Cisterna di Latina per la produzione dell’amianto.

Gli hangar della morte
A mietere vittime sui posti di lavoro non ci sono solo i colossi della chimica. Dopo i casi delle multinazionali operanti in Italia, spostiamo i riflettori sulla situazione che impera all’aeroporto di Capodichino (NA).
I dipendenti civili dell’aeroporto di Capodichino vogliono che qualcuno dica loro quanto sia incerto il confine fra il personale civile e la guerra, quanto sia incerto il confine fra gli spazi civili dello scalo internazionale e gli hangar della base NATO, quanto sia incerto il confine fra la difesa della loro salute e la morte per tumore o per linfoma di Hodgkin che “viaggia” con gli aerei cargo della NATO.
Negli ultimi cinque anni, tra gli impiegati dei piani alti e gli operai al piano terra si sono registrati troppi casi di tumori, casi di linfoma di Hodgkin e, soprattutto, di morti per leucemia. Ventuno casi negli ultimi due anni e mezzo, dieci casi soltanto nel 2002. Ad alcuni lavoratori dell’aeroporto è stato accertato un tipo di tumore catalogato come “linfoma di Hodgkin”, lo stesso riscontrato ai militari intervenuti nell’ex Iugoslavia. Il governo deve chiarire presto e, allo stesso tempo, deve agire per accertare le cause del tragico allarme. Sono reali le vittime dell’uranio impoverito, i morti per cancro, che viene chiamato “stress psico-fisico”, i civili ammalati e morti grazie alle “missioni di pace”… basta negare che esista l’uranio impoverito, basta dire che, se anche esiste, non è stato usato, o che comunque fa bene alla salute. Basta fare qualche decreto che cambi il nome delle cose - Gela docet - basta confondere le acque, basta inquinare le prove, basta mentire. Si spostano i limiti di tollerabilità, si trasformano le definizioni, s’inventano nuovi termini e si nominano commissioni che daranno il loro responso fra anni, o che hanno già un responso pronto, ancora prima di cominciare a lavorare.

Indirizzi utili

Milano
Istituto Europeo di Oncologia
Tel. 02.574891

Istituto Nazionale Tumori
Tel. 02.23901

Pavia
Policlinico San Matteo
Tel. 0382.501121 (centralino)

Fondazione Salvatore Maugeri
Tel. 0382.5921 (centralino)

Genova
Azienda ospedaliera San Martino Tel. 010.5551-35371
(centralino)

Roma
Azienda Policlinico Umberto I
Tel. 06.49971 (centralino)

Istituto Regina Elena
Tel. 06.49851

Ospedale Fatebenefratelli
Isola Tiberina Tel. 06.68371

Policlinico Gemelli
Tel. 06.30154511

Università Cattolica
Tel. 06.301511

Università La Sapienza
Clinica Chirurgia
Tel. 06.49971-4450741

Napoli
Istituto Nazionale Tumori, “Fondazione G. Pascale”
Tel. 081.5903111

Palermo
Ospedale Oncologico
“Maurizio Ascoli”
Tel. 091.420846

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