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Colpito il tumore al fegato

Maela Officio, N. 1 gennaio 2002

Siamo stati ricevuti nel suo accogliente studio, al piano terra del padiglione della Chirugia, all’interno del Policlinco S.Matteo di Pavia, vicino alla piazzola dell’ingresso principale. Il professor Aris Zonta, primario della Patologia Chirugica I, e tutta la sua équipe sono i co-protagonisti di una vicenda che segna una tappa importante nella storia della ricerca medica. Insieme a due suoi stretti collaboratori, la dottoressa Flavia Caramella, capo anestesista, e il dottor Antonio Braschi, direttore della Rianimazione I, ci spiega come oggi, dopo lunghi e articolati studi, sono riusciti a salvare la vita di una persona colpita da tumore del fegato e destinata altrimenti a sicura morte. L’altro protagonista è, infatti, il paziente, che con la massima fiducia ha affidato la propria vita nelle mani degli scienziati.
Si tratta di un uomo di mezza età che nella primavera scorsa scopre di essere affetto da tumore del fegato. Grazie alla rete di Internet viene a conoscenza di uno studio condotto su questo tipo di patologia e presentato dal professor Zonta e dal professor Tazio Pinelli, fisico nucleare, a un congresso del 1999 a Los Angeles. “All’incirca trent’anni fa – spiega Zonta – nell’allora neonato laboratorio di chirurgia epatica sperimentale (che si trova a palazzo Botta a Pavia) con i pochi strumenti a disposizione abbiamo iniziato gli studi sul tumore del fegato. Vent’anni dopo, anche il professor Pinelli comincia ad approfondire gli aspetti radioterapici del problema. Da un incontro occasionale è nata poi la nostra collaborazione”.
Il paziente trova una speranza di sopravvivere e comincia così il tradizionale iter di contatti, accertamenti clinici e ricovero. Al momento si trova in rianimazione e la prognosi è ancora riservata, ma pare che le sue condizioni siano stazionarie e che risponda positivamente alle terapie.
Per i medici invece il percorso è stato più difficile: infatti, per procedere hanno dovuto attendere l’autorizzazione del Comitato di bioetica e del ministro della Salute, Girolamo Sirchia, che arriva il 15 ottobre scorso.
Purtroppo alcune forme di tumore del fegato sono aggressive e letali e “le possibilità di sopravvivenza dei pazienti con neoplasia epatica diffusa è, attualmente, di soli tre-quattro mesi” – ci spiega il professor Zonta – “ma prima di sottoporre un paziente al nuovo trattamento è necessario indagare la natura della neoplasia, stabilire se si tratta di un tumore primitivo o secondario, se ha dei focolai diffusi nell’organismo e se quindi non è trattabile con le tecniche tradizionali di chirurgia, chemioterapia e radioterapia”.
L’importanza della sua scoperta è comunque innegabile, ecco perché abbiamo chiesto al primario di raccontarci come la ricerca si è spinta in questa direzione ed è arrivata a una svolta. “Questo trattamento si chiama Boron Neutron Capture Therapy (Bnct) e consiste nell’intrappolare le cellule malate, dell’organo epatico in questo caso, in una gabbia di neutroni. Questi avrebbero, a loro volta, il compito di aggredirle e distruggerle.
Si è osservato che i neutroni, se non incontrano ostacoli nel loro tragitto, possono attraversare un corpo senza lasciare traccia. Ma se essi colpiscono dei nuclei atomici, come il boro 10 che è un isotopo particolare del boro, da quest’incontro l’atomo si spacca. Le particelle che si creano si dividono all’esterno del punto d’impatto con un’energia altissima e con un raggio d’azione brevissimo. In tal modo, se noi abbiamo una cellula neoplastica la quale contiene questo nucleo di boro, il boro viene colpito dal neutrone e la cellula neoplastica muore mentre la cellula sana contigua rimane integra”.
Questo studio è senza precedenti e ha dato per la prima volta risultati significativi. In realtà, lo stesso trattamento era già in uso nella cura dei tumori cerebrali e dei melanomi.
La novità in questo caso è “di averlo applicato a un intero organo, che quest’organo è il fegato e che, di conseguenza, si apriranno nuovi orizzonti nella cura delle patologie di tutti gli altri organi asportabili (pancreas, polmoni, ecc…)”.
E sempre per la prima volta, dopo trent’anni di studi e di ricerche condotti solo su cavie animali, si sperimenta sull’uomo.

L’intervento

Il progetto avviato dal professor Zonta e dalla sua équipe di collaboratori è multidisciplinare e coinvolge un gruppo di ricerca formato da Università di Pavia e Infn (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare), con i dipartimenti di Fisica Nucleare e Teorica, di Chirurgia generale e Biologia animale.
I chirurghi del Policlinico S. Matteo hanno espiantato il fegato a un uomo malato da tempo di tumore. La prima fase d’intervento è stata quella chirurgica, che prevede l’apertura dell’addome del paziente. Una volta eseguita, il percorso si è fatto più complesso. “Si trattava di somministrare il boro al fegato tramite una vena collegata direttamente all’organo – continua il professore –. Stando agli studi, le cellule tumorali avrebbero dovuto assimilare una quantità di boro pari a quattro volte quella delle cellule sane. A quel punto, avremmo potuto prelevare il fegato dal corpo del malato e portarlo all’interno della colonna termica del reattore dell’Università per “bombardarlo” in un campo neutronico”. Dopo dieci ore dalla somministrazione, si sono avuti i risultati sperati. Nella seconda fase, quindi, il prezioso carico ha raggiunto con l’ambulanza il Lena, presso la sede universitaria di via Aselli, dove tecnici e fisici erano pronti a intervenire. Il fegato, mantenuto in ambiente sterile e a una temperatura di dieci gradi, è stato sottoposto a irraggiamento. Al termine, è stato riconsegnato ai chirurghi per il reimpianto. Il programma è stato studiato nei dettagli. Nel complesso, le persone coinvolte in questa operazione sono state circa una cinquantina, tra medici, personale infermieristico, fisici e tecnici. In particolare, l’équipe medica, composta solo in sala operatoria da oltre venti persone, tra le quali ben quattro anestesisti guidati dalla dottoressa Flavia Caramella, ha dovuto affrontare non pochi problemi per tenere in vita il paziente privo dell’organo epatico. Ed è proprio la capo anestesista che ricorda “le difficoltà date da un’anestesia lunga dieci ore, con il pericolo di raffreddamento per il paziente ad addome aperto, dall’impossibilità di somministrare farmaci anestetici per la mancanza del fegato, organo nel quale avviene il loro metabolismo. E anche i problemi dovuti al sangue senza coagulazione, per la quale il fegato è indispensabile, che fuoriusciva da ogni ferita e si faceva sempre più liquido, come fosse acqua”.
L’intervento si è protratto per quasi un giorno intero, ben venti ore. Lo si può considerare l’atto finale di una ricerca durata per anni alla quale ha dato il suo contributo anche la fisica nucleare, attraverso l’utilizzo di apparecchiature avanzate.

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