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Dall'AIDS un'arma contro il cancro
Mariagrazia Villa, N. 10 ottobre 2000
Il principio è quello del cavallo di Troia, ma all'inverso. Questa volta il nemico da abbattere sta dentro le mura della città e gli amici rannicchiati nella pancia di legno, pronti ad uscire al momento opportuno. È tutta italiana la recente scoperta della possibilità di usare il virus dell'Aids (Acquired Immuno-Deficiency Syndrome), come mezzo di trasporto per entrare nelle cellule tumorali e "scaricarvi" dentro le informazioni genetiche sane. L'importante risultato scientifico, reso possibile dall'ingegneria genetica, che consente di scomporre e ricomporre "tessere" di virus come in un mosaico, e dai fondi stanziati da Telethon, Airc (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro) e Ministero della Pubblica Istruzione, è stato pubblicato sul numero di giugno della prestigiosa rivista "Nature Genetics". E si deve ad un gruppo di giovani ricercatori dell'Università di Torino, i cui laboratori di terapia genica si trovano presso l'IRCC (Istituto per la Ricerca e la Cura del Cancro) di Candiolo, situato alle porte del capoluogo piemontese. Si tratta di Antonia Follenzi, Laurie Ailles, Silvia Bakovic e Massimo Geuna, coordinati da Luigi Naldini, da oltre dieci anni ricercatore stimato in tutto il mondo, con un buon numero di pubblicazioni scientifiche e di brevetti all'attivo, e dal novembre '98 Professore Associato di Istologia alla Facoltà di Medicina dell'Ateneo torinese e Direttore del Laboratorio di Terapia Genica dell'IRCC di Candiolo. Anzitutto, "siamo nel campo della terapia genica, quindi dell'utilizzo del Dna a scopo terapeutico", spiega il professor Naldini. "Noi conosciamo già molto delle informazioni genetiche, quando qualcosa è difettoso in una cellula tumorale, o in quella di un paziente affetto da una malattia ereditaria. L'idea, relativamente semplice, è quella di aggiungere a queste cellule le informazioni genetiche mancanti o lesionate, per riparare il danno. Il problema vero, però, è come farlo in modo efficiente: come introdurre del Dna estraneo nella cellula di un organismo". Ora, "come inserirlo in una cellula che noi in laboratorio cresciamo in vitro è abbastanza facile", mentre "farlo in un animale o, naturalmente, in un paziente è molto più complesso". Ed è proprio per risolvere questo problema che si arriva all'uso dei virus. "Questi, e soprattutto i retrovirus e, nello specifico, quello dell'Aids che è un particolare retrovirus, sono delle macchine specializzate, che si sono evolute nel corso di milioni di anni, proprio per inserire nelle cellule di un organismo il loro pacchetto di informazioni genetiche: una volta introdotte nella cellula, queste vengono unite ai cromosomi di quella stessa cellula infettata e diventano parte integrante del suo patrimonio genetico". Se poi questa cellula si divide, lo passa alle cellule figlie e si ottiene così "una vera e propria modificazione genetica, che è l'obiettivo della terapia genica". Ma qual è l'accorgimento per sfruttare il virus come veicolo, e non come agente patogeno? Costruire un "proiettile biologico", ossia "un vettore, che è una particella virale, realizzata in modo tale da mantenere intatta la sua capacità infettiva, ossia di entrare in una cellula, ma in cui si sostituisce il carico genetico, affinché trasporti i geni terapeutici e non virali". I vettori iniziali, derivati dai retrovirus, che pure funzionavano molto bene, "avevano un limite fondamentale: erano - e sono tuttora - capaci di infettare solamente le cellule che si dividono attivamente". Altrimenti, "il virus riesce, sì, ad entrare nella cellula quiescente, ma il suo contenuto genetico viene eliminato, cioè non raggiunge il nucleo e, dunque, i cromosomi della cellula". Da una parte, allora, "abbiamo un sistema che farebbe quello che vogliamo, ossia inserire stabilmente del Dna nei cromosomi della cellula", ma dall'altra, "il virus non infetta le cellule che a noi interessano, perché le cellule che si dividono sono quelle che nell'organismo vivono molto poco". Anche per un tumore: "non tutte le sue cellule si dividono, solo una frazione in ogni determinato momento". Quindi, "la maggior parte delle cellule di una neoplasia, ma anche del cervello, del cuore, o del fegato del paziente, non sono raggiungibili con questi vettori retrovirali". E per risolvere il dilemma, qual è stata l'idea? "All'inizio erano due: o ingegnerizzare, quindi provare artificialmente a far diventare questi retrovirus capaci di infettare le cellule che non si dividevano; oppure andare a cercare nella natura un virus che l'avesse già fatto con il meccanismo della selezione naturale". E così si è "cascati" sull'Hiv (Human Immunodeficiency Virus), il virus dell'Aids. "Sì, anche se non era proprio quello che avremmo voluto trovare... Si tratta di un virus patogeno, con una delle storie più tristi che si possano immaginare. Di fatto, però, è a tutt'oggi l'unico retrovirus - lui e i suoi consimili che infettano, ad esempio, la scimmia - che contagia almeno un tipo di cellula che non si divide, che è il macrofago, una cellula del sistema immunitario". A questo punto, ecco il ragionamento: "costruire un vettore a partire da questo virus, riuscendo naturalmente a garantire l'innocuità, che può funzionare con le cellule che non si dividono". Il lavoro è iniziato al Salk Institute for Biological Studies di La Jolla (San Diego) in California, oltre 5 anni fa. "Ero andato a trascorrere un periodo sabbatico in un laboratorio che era uno dei primi in cui la terapia genica si era concepita", racconta il professor Naldini. "Sopra di noi c'era un laboratorio che studiava la biologia molecolare del virus dell'Aids e, quindi, gli strumenti specifici con cui si doveva lavorare; dall'altra parte c'era un laboratorio che studiava le cellule nervose che, per definizione, non si dividono". Così, mettendo insieme le varie competenze, "abbiamo costruito il prototipo di questo vettore. Dopo i primi due anni di lavoro, abbiamo effettivamente dimostrato che funzionava: siamo riusciti ad inserire dei nuovi geni - che non erano terapeutici, ma semplicemente dei marcatori - nel cervello di ratti adulti". Quel primo prototipo, però, "non era del tutto efficiente". E il lavoro svolto in questi ultimi tempi, per il quale il gruppo di Candiolo ha appena ricevuto un riconoscimento internazionale all'ultimo congresso dell'American Society of Gene Therapy di Denver, è stato "perfezionare questi vettori retrovirali, capendo esattamente cos'è che del virus dell'Aids serve nel vettore, per riuscire ad infettare efficientemente le cellule che non si dividono dei tessuti di un organismo, o di un tumore: questo aiuta soprattutto a togliere tutto ciò che per noi è inutile, ma serve invece al virus per renderlo patogeno". Uno dei problemi affrontati è stato che "il virus dell'Aids normalmente contagia soltanto poche cellule, tipo i linfociti e i macrofagi, ma non le cellule della mammella, del fegato, o del cervello, perché il suo rivestimento non funziona. Per avere un vettore versatile, abbiamo quindi dovuto sostituire la parte esterna di queste particelle virali, utilizzando la componente di un virus capace di infettare le più varie cellule possibili, che è quello della stomatite vescicolare, in grado di contagiare solamente i bovini e, dunque, innocuo per gli esseri umani". Si è così ottenuto un "vettore ibrido" che, consentendo di ridurre al minimo le informazioni genetiche che servono, rende possibile creare un puzzle sempre più lontano dai virus di partenza e dunque un'arma sempre più sicura. Perciò la scoperta è rilevante: "po-trebbe rendere effettivamente utilizzabili questi vettori in terapia". Questo proiettile biologico, sperimentato sulle cellule mature, quelle staminali del midollo osseo e i neuroni del cervello, ha ottenuto esiti vicino al 100% ed "è di per sé uno strumento, un sistema di trasporto genetico che funziona egregiamente, anche se al momento abbiamo provato solamente con gli organismi di laboratorio". Dal punto di vista terapeutico, però, adesso è come avere un camion perfetto, ma ancora vuoto: si tratta di trovare il carico giusto. "Bisogna ovviamente mettere dentro il vettore ciò che serve, dunque le applicazioni dipendono da quali informazioni genetiche utilizzare: se vogliamo curare una malattia genetica, dovremo inserire il gene mancante in quella condizione; mentre nel caso del cancro, dovremo introdurre dei geni capaci di contrastare gli oncogeni attivati in quel particolare tipo di tumore". Potenzialmente, dunque, non ci sono preclusioni all'utilizzo di questi vettori retrovirali a fini terapeutici, per cui si potrebbe tentare di curare anche lo stesso Aids, in futuro. In questo momento, "si tratta di scegliere in quale direzione muoversi, considerando i criteri di fattibilità e la valutazione rischi-benefici. Intanto, stiamo provando ad utilizzare questi vettori sperimentali che portano il gene terapeutico in modelli di malattia, sempre nei topini, ma sono esperienze in corso, non possiamo anticiparne i risultati". Dunque, dal laboratorio alla pratica clinica il passo sembra ancora lungo. "Dopo aver dimostrato che il vettore funziona, bisogna provare che il sistema ha un impatto terapeutico in un modello di malattia. Quando si avranno questi dati, si potrà seriamente programmare una sperimentazione clinica sull'uomo, ma si parla sicuramente di qualche anno". Insomma, "una scoperta si racconta in fretta, ma ci vuole tempo per raggiungerla...", conclude il professor Naldini.
Ultimo rapporto sulla diffusione dell'Aids La fotografia delle Nazioni Unite sulla diffusione dell'epidemia da Hiv nel mondo è stata presentata al XIII Congresso internazionale sull'Aids, che si è appena concluso a Durban, in Sudafrica. Un incontro fondamentale, cui hanno partecipato i massimi specialisti in materia, per confrontarsi sulle strategie di prevenzione e le possibili terapie. I dati non sono per niente tranquillizzanti. Anzitutto, in Africa, dove si vive una vera e propria emergenza, a causa della mancanza di farmaci (l'attuale terapia antivirale combinata costa l'anno ad un malato oltre 15mila dollari: quanta responsabilità hanno le grandi multinazionali farmaceutiche nel tenere alti i prezzi dei medicinali, preferendo curare i ricchi pazienti occidentali e lasciando al loro destino tutti gli altri?), dell'arretratezza delle strutture sanitarie, della miopia dei governi e delle particolarità culturali del continente, che rendono difficile un programma di seria prevenzione. Ma anche a causa di un virus "africano", più temibile di quello in circolazione in Occidente, che si trasmette di più e più velocemente (secondo un recente studio, il 6% dei sieropositivi italiani lo avrebbe già contratto). In Sudafrica, il paese più colpito, vive il 70% dei 34 milioni di persone che risultano infettate dall'Aids in tutto il pianeta. Le nazioni dell'Africa sub-sahariana sembra che perderanno, a causa del virus, un quarto della popolazione nei prossimi 10 anni. E anche negli altri paesi in via di sviluppo, dal Sud-Est asiatico ai Caraibi, la situazione è altrettanto tragica, così come nell'ex-Urss, dove nel giro di 2 anni si è assistito ad un raddoppio del numero d'infezioni. Dall'inizio dell'epidemia si stima che nel mondo 16 milioni di persone siano morte (nel solo 1999 pare ci siano stati 5,6 milioni di nuove infezioni e 2,6 milioni di decessi). In Italia, come in tutti i Paesi industrializzati (dove la trasmissione avviene ora soprattutto con i rapporti eterosessuali non protetti e riguarda i giovani dai 20 ai 30 anni), dal '96 si è registrato un decremento del numero dei nuovi casi di Aids, che sono circa 46mila dall'inizio dell'epidemia. Però, i 2mila casi verificatisi negli ultimi 12 mesi, pari al 50% in meno del '95, l'anno in cui si osservò il picco endemico, non devono far pensare che il problema stia risolvendosi. La riduzione del numero dei casi di malattia conclamata è attribuibile al cosiddetto "effetto terapia" (si allunga il tempo di incubazione in seguito all'uso dei farmaci), non ad un effettivo ridursi del serbatoio dell'infezione, che si ritiene dell'ordine delle 100mila persone sieropositive. L'incidenza di nuove infezioni, infatti, stabilizzatasi negli ultimi tre anni, non accenna affatto a diminuire.
Hiv: la speranza di un vaccino dall'Italia? La notizia è stata data dal famoso virologo Robert Gallo, durante un recente convegno organizzato dal Ministro della Sanità della Repubblica di San Marino, Romeo Morri: un vaccino contro l'Aids, alla cui messa a punto hanno collaborato ricercatori europei ed americani, è in corso di sperimentazione in prima mondiale proprio in Italia su 50 soggetti sieropositivi e 5 volontari sani, sotto la direzione di Alessandro Gringeri del Centro Angelo Bianchi-Bonomi del Policlinico di Milano. Al momento, nella cura dell'infezione da Hiv, l'ideazione di un vaccino sembra una delle possibili prospettive, se non l'unica, come ha affermato Robert Redfield dell'Institute of Human Virology di Baltimora. Il vaccino sperimentato nel nostro Paese, che è di tipo terapeutico, nel senso che viene somministrato quando la malattia si è già instaurata, ha dimostrato di non essere in alcun modo tossico per l'organismo e di essere capace di indurre la produzione di anticorpi in grado di neutralizzare la proteina Tat. Il vaccino, infatti, non si rivolge al virus Hiv nel suo complesso, ma a questa particolare proteina virale regolatoria, la molecola che si esprime nella cellula infettata, facilitandone la replicazione, e ritenuta responsabile di "addormentare" il sistema immunitario dell'individuo rispetto all'intruso (altri vaccini in corso di sperimentazione nel mondo si rivolgono, invece, a proteine virali strutturali, ossia quelle che fanno parte del rivestimento interno od esterno del virus). Ora, si tratta di stabilire l'efficacia del vaccino nel combattere l'Hiv, passando ad una sperimentazione più allargata, su sieropositivi e sieronegativi, per verificare se è in grado di rallentare la progressione della malattia nei primi ed impedire la trasmissione nei secondi. Purtroppo, però, "le sperimentazioni su larga scala potrebbero cominciare nel prossimo anno, ma per la messa in commercio dei vaccini occorrerà attendere almeno tre o quattro anni", ha detto lo stesso Gringeri.
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