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Le tessere del puzzle
Mariagrazia Villa, N. 12 dicembre 1999
Ai primi posti di una classifica di cui si faremmo volentieri a meno: nei paesi industrializzati, l'adenocarcinoma prostatico è, negli uomini sopra i 50 anni, la terza causa di morte per cancro, dopo i tumori del polmone e del colon-retto. Solo in Italia, lo scorso anno sono stati segnalati ben 7.426 nuovi casi e registrati 6.013 decessi. Non solo. Questa neoplasia sembra anche in costante aumento, colpendo sempre più individui. Paradossalmente, però, questo trend tristemente positivo potrebbe avere una buona ragione: "l'incremento del tumore della prostata può, forse, dipendere dal fatto che adesso riusciamo a diagnosticarlo precocemente in persone che, un tempo, non si sarebbero nemmeno accorte di essere ammalate", spiega l'urologo Mario Mensi, dirigente di primo livello con funzione di vicario del primario, presso la Divisione di Urologia dell'IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia. Ma chi colpisce questa patologia? Prevalentemente i soggetti di età avanzata: "secondo le statistiche, sotto i 40 anni è raro e i neri presentano più rischio rispetto ai bianchi - ma quelli africani meno dei neri americani, probabilmente perché questi ultimi hanno acquisito l'alimentazione e lo stile di vita statunitense". Con l'aumentare dell'età, il rischio man mano cresce: "ci sono alcuni studi che dimostrano che nel 90% dei pazienti ultraottantenni esiste un focolaio di adenocarcinoma prostatico, magari misconosciuto". Per fortuna, avendo questo tumore un'evoluzione molto lenta, "i dati sulla sopravvivenza sono ottimi: se correttamente trattato, sia che si tratti di una neoplasia localizzata che localmente avanzata, a distanza di 7-8 anni dalla diagnosi, la stragrande maggioranza dei pazienti è ancora viva". Se, invece, "alla diagnosi, la malattia è già metastatica, la sopravvivenza cala bruscamente e, a circa 2 anni, abbiamo il 30% di pazienti deceduti". Ma, "poiché la neoplasia cresce in una porzione di ghiandola periferica e si sviluppa molto lentamente, la sintomatologia si manifesta in modo tardivo". Così, "prima di dare una compressione sull'uretra o un'estensione a livello del collo vescicale e, dunque, presentare dei sintomi, ci mette molto tempo, addirittura anni". Quando poi i sintomi compaiono, sono "gli stessi di altre patologie ostruttive della giunzione vescico-uretrale - tipo ipertrofia prostatica benigna - quali: pollachiuria, disuria, tenesmo vescicale, getto indebolito, ematuria, ritenzione d'urina, fino ai casi più gravi, quando il tumore infiltra lo sbocco dell'uretere in vescica e, quindi, determina idroureteronefrosi bilaterale con insufficienza renale". A volte, purtroppo, i pazienti arrivano alla diagnosi proprio in questo stadio, senza essersi accorti della patologia. Quindi, "quando una persona ha sintomi ed ha un tumore maligno della prostata, questo è certamente in uno stadio già avanzato". Ciononostante è possibile, eseguendo dei controlli periodici, soprattutto dopo i 50 anni, età in cui comincia per gli uomini la fase di rischio per questo tipo di neoplasie (il check-up urologico è consigliabile dopo i 40 anni, soltanto in quei casi in cui ci sia stato in famiglia un tumore della prostata), fare una diagnosi precoce. Visto che i mezzi diagnostici non mancano, è l'occasione per evitare spiacevoli sorprese in futuro. "Benché la diagnostica del tumore prostatico in fase iniziale sia un po' come un puzzle in cui bisogna cercare di combinare più tessere per arrivare alla diagnosi, essa si basa sostanzialmente su tre cardini: esplorazione rettale, ecografia transrettale ed esame del Psa", continua il dottor Mensi, che ha proprio messo a punto un protocollo, presentato a Vienna il 5 novembre di quest'anno al Second Galician Urological Symposium, basato su questi tre elementi. "Classicamente, la diagnosi di tumore della prostata, fin dai primi del Novecento, viene fatta con l'esplorazione rettale - che noi chiamiamo oggi con un termine abbreviato "Dre", digital rectal exploration -, che ha ancora una validità enorme: viene eseguita con il dito indice e si palpa la ghiandola attraverso il retto". E' purtroppo un po' spiacevole per il paziente, ma molto importante, "perché consente una valutazione diretta della prostata: in caso di neoplasia benigna, la consistenza è teso-elastica, in caso di un tumore maligno, è duro-lignea e la ghiandola è sformata". Inoltre, è un esame facilmente eseguibile, che ogni urologo - ma volendo anche ogni medico di base -, è in grado di compiere, pur con il limite di essere "una tecnica che dipende dalla sensibilità dell'operatore". Ma un grosso passo avanti è stato fatto, "quando si è avuto a disposizione l'ecografia con sonde endorettali, che permette una valutazione diretta della ghiandola". Anche questo mezzo diagnostico, però, non è la panacea: si è visto, infatti, che "circa il 30% dei tumori sono isoecogeni, cioè possiedono la stessa ecogenicità di una ghiandola normale, per cui non li si distingue". Ed anche "quelli iperecogeni ci pongono qualche dubbio". La maggior parte, per fortuna, "sono ipoecogeni e si diagnosticano facilmente". Un ulteriore passo avanti è stato, infine, compiuto "con l'individuazione di marker tumorali nel sangue, specifici, affidabili e facilmente rilevabili". Tra gli altri, "ma direi quello più importante, che usiamo routinariamente, è il Psa - prostatic specific antigen, ossia l'antigene prostatico specifico -, che viene prodotto dalle cellule della prostata e che nell'individuo normale ha la funzione di sciogliere il coagulo del liquido seminale". Nonostante l'esame del Psa "sia utilissimo, tanto per i pazienti sintomatici, quanto per il check-up", ha posto via via dei problemi. "Abbiamo una soglia del Psa, pari a 4 nanogrammi per ml, sotto la quale, una persona potrebbe in teoria star tranquilla, per quanto alcuni studi americani tendano adesso ad abbassare questi valori". Sicuramente, "ci si deve preoccupare sopra i 10 ng/ml, dove si ha una grossa probabilità che il paziente abbia una neoplasia prostatica". Ma, "tra 4 e 10, abbiamo la cosiddetta "zona grigia del Psa", in cui la persona potrebbe avere un tumore maligno o non averlo". Come comportarsi, allora? "Se un paziente ha un valore inferiore a 4 ed è asintomatico, gli si consiglia di fare un esame del Psa una volta l'anno, se è sopra i 60 anni, una volta ogni due se è sotto i 60 - a meno che non abbia un'ecografia transrettale positiva o un'esplorazione rettale sospetta". E se i valori stanno tra 4 e 10? "La ricerca ha identificato una frazione del Psa, il cosiddetto "Psa free", ossia libero, che dovrebbe aiutare nella diagnostica: se il rapporto tra Psa free e Psa totale è sotto 0,15, è molto probabile che il paziente abbia una neoplasia; se è sopra 0,15, è probabile che non l'abbia". Poi, anche qui "si potrebbe evidenziare una zona grigia della zona grigia: insomma, non è sempre facile orientarsi, nemmeno per un medico". Se poi si ha un dubbio sulla base del Dre o dell'ecografia, "si può fare una biopsia geograficamente attinente, andando a biopsiare le zone sospette"; se invece si ha un dubbio solo in base al Psa, "si deve ricorrere ad una biopsia ecoguidata randomizzata, di solito con 3 campioni per lato". Se la biopsia è negativa, "il paziente deve essere tenuto sotto controllo, facendogli l'esame del Psa ogni 4 mesi e controllandolo per un anno", andando a valutare la "Psa velocity": "se cresce oltre una certa soglia, si continua a biopsiare". Senza dimenticare un'altra parte del Psa, importante da considerare, la "Psa density": "se è elevata, la situazione del paziente è sospetta". Ma, una volta diagnosticato, come si cura l'adenocarcinoma prostatico? "I trattamenti variano a seconda dell'estensione del tumore, cambiano cioè a seconda dello stadio in cui si trova la malattia". Quando la neoplasia è localizzata, ossia confinata alla ghiandola, o interessante solo una sua porzione, "dobbiamo distinguere in base all'età del paziente". Sotto i 70 anni, "il gold standard del trattamento è la prostatectomia radicale, che può essere effettuata per diverse vie a seconda dei chirurghi: retropubica, transperineale, trancoccigea eccetera". Si tratta di asportare completamente la prostata e le vescichette seminali ed anastomizzare, ossia mettere in collegamento, l'uretra al collo della vescica. "È un intervento delicato, non solo per problemi di sanguinamento durante l'operazione, ma soprattutto perché può provocare incontinenza ed impotenza". Dopo gli studi dell'americano Walsh, però, "per risolvere questi effetti collaterali si è pensato di fare un intervento cosiddetto "nerve sparing", cioè con risparmio dei nervi necessari per l'erezione, in grado di garantire - anche se mai al 100%, purtroppo - un'attività sessuale postchirurgica". Ma come si fa a stabilire quando il paziente deve essere avviato all'intervento chirurgico? "Si ricorre a due strumenti diagnostici: la Tac addomino-pelvica e la scintigrafia ossea", perché le prime metastasi di questo tumore colpiscono proprio le ossa. In alternativa alla prostatectomia, "si può proporre una radioterapia localizzata alla prostata", ossia in grado di concentrare le radiazioni solo ed esclusivamente sulle zone tumorali della ghiandola, senza intaccare gli organi circostanti: "dà le stesse garanzie di guarigione della radicale - nonostante gli effetti collaterali dovuti alla radioterapia - e non comporta alcun trattamento associato". Se il paziente ha più di 70 anni o presenta fattori di rischio cardiologici, respiratori o sistemici gravi, allora "il trattamento d'elezione è la soppressione ormonale totale, che è una castrazione chimica: si priva il paziente di tutti gli ormoni maschili, usando vari farmaci che bloccano la produzione di testosterone da parte dell'organismo". Purtroppo, però, possono verificarsi degli spiacevoli effetti collaterali, "come calo della libido o impotenza". Nei casi in cui la malattia sia localmente avanzata, fuori dalla capsula prostatica e tale da invadere le zone circostanti, ma senza dare metastasi a distanza, e il paziente abbia meno di 70 anni, "val la pena fare una radioterapia, associando cure ormonali per periodi di tempo ridotti". Gli ultimi studi dicono che si potrebbero "tentare dei cicli di ormonoterapia basati sul valore del Psa: un trattamento ormonale ad intermittenza che permetterebbe di prevenire le resistenze al trattamento". Sopra i 70 anni, invece, "si applica ancora la soppressione ormonale, senza alcuna sospensione". Se, infine, la malattia è metastatica, "il paziente va sicuramente trattato, in prima istanza ed indipendentemente dall'età, con la soppressione ormonale". Se la persona non risponde al trattamento, o dopo 6-7 anni ha progressione di malattia, "si può provare con una chemioterapia per via sistemica, che non dà, però, dei grossi risultati". Di solito, a questo punto, "la malattia è difficilmente controllabile". E quale sarà il futuro nella cura del cancro alla prostata? "Le terapie più all'avanguardia, non sperimentali ma quasi, sono i trattamenti del tumore con l'infissione interstiziale di sostanze radioattive nella prostata, che dovrebbero comportare un'irradiazione localizzata, senza determinare danni gli organi circostanti". Ma questa metodica, che viene effettuata in scuole europee ed anche in qualche Centro pilota in Italia, "presenta ancora nel nostro paese delle remore, poiché si mandano in giro delle persone potenzialmente radioattive: quando vanno ad orinare, ad esempio, devono usare dei contenitori protetti e seguire varie precauzioni". C'è anche "qualcuno che tratta con l'ipertermia il tumore localizzato", ma "sono terapie ancora in fase di studio, non mi sentirei di consigliarle ad alcun paziente", conclude il dottor Mensi. I possibili fattori di rischio Solo ipotesi, ma nessun dato certo: "la patogenesi del cancro prostatico è in gran parte sconosciuta", afferma il dottor Mensi. Esistono, comunque, dei probabili fattori di rischio. Uno di questi, "anche se controverso, è quello dell'assetto ormonale del paziente: qualcuno afferma che, a seconda del tasso elevato di testosterone nell'organismo, ci potrebbe essere un'incidenza maggiore di tumore della prostata". E "sicuramente gli alimenti giocano un ruolo importante: la dieta povera di grassi potrebbe ridurre un incremento della concentrazione plasmatica degli androgeni". E' opinione controversa anche quella legata al fatto che "un'elevata, oppure scarsa, attività sessuale potrebbe essere foriera di questa neoplasia". Così pure l'iperplasia prostatica benigna - che è il tumore benigno della prostata, che colpisce gran parte degli uomini, essendo legata all'invecchiamento - "non è affatto provato che favorisca l'insorgenza del tumore maligno: è giusto sfatare, dunque, il pericolo che un adenoma prostatico sia l'anticamera di un cancro". Anche perché, "nel 70% dei casi, il tumore maligno della prostata nasce in una parte della ghiandola diversa da quella in cui nasce quello benigno: secondo l'ultima classificazione della prostata, che è quella di McNill, l'adenocarcinoma cresce nella porzione periferica della ghiandola, mentre l'adenoma prostatico nasce dalla zona centrale e dalla cosiddetta "zona di transizione"". Anche in merito alle infiammazioni croniche, le prostatiti, "non ci sono dati sicuri sul fatto che possano causare neoplasie della prostata". Forse, l'unico vero imputato è "solo l'uso prolungato di ormoni androgeni", ad esempio gli anabolizzanti che scorrono a fiumi nelle palestre, "ché potrebbe costituire un fattore di rischio". Per quanto riguarda la componente familiare, invece, "ci sono degli studi controllati su un certo tipo di tumore della prostata - peraltro, facilmente trattabile, se diagnosticato per tempo - in cui si evidenzia appunto una familiarità".
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