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Cancro alla prostata e medicina nucleare
Cristina Mazzantini, N. 8/9 agosto/settembre 2015
Ci sono buone notizie per chi è affetto da carcinoma prostatico. Una sopravvivenza globale del 30% in più. A garantirla, sottolineano gli esperti, è il Radio-223 dicloruro (Ra-223), il primo radiofarmaco efficace nei pazienti affetti da tumore della prostata con metastasi ossee. Si tratta di un’innovazione riconosciuta anche dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) che sta per inserirla in fascia H, a totale carico del Servizio sanitario nazionale. « Il nuovo farmaco è utilizzato dal medico nucleare, una figura che sta assumendo sempre più rilevanza nella lotta al cancro. Fino a poco tempo fa il campo di più importante applicazione terapeutica della Medicina Nucleare era in ambito tiroideo (carcinomi e ipertiroidismo) », spiega il professor Onelio Geatti, presidente nazionale dell’ Associazione Italiana di Medicina Nucleare e Imaging Molecolare (AIMN). Va infatti ricordato che una delle prime patologie a essere curate con la medicina nucleare è stato il tumore della tiroide, la cui proliferazione può essere efficacemente contrastata con lo Iodio radioattivo (o Iodio 131) che oggi è comunemente utilizzato, dopo la rimozione chirurgica della ghiandola, in tutti quei pazienti in cui si ritiene sia necessario eliminare le eventuali cellule cancerose residue dopo l’intervento. « Ora, però, alla medicina nucleare si apre uno spazio nuovo nella terapia di una neoplasia che i numeri indicano come il primo per diffusione fra i maschi del nostro Paese. Ogni anno si registrano, infatti, oltre 36.000 nuovi casi », puntualizza ancora il professor Geatti.
Di queste nuove opportunità e del futuro della medicina nucleare hanno discusso oltre 500 specialisti, provenienti da tutta Italia, riunitisi recentemente a Rimini per il 12° Congresso nazionale dell’AIMN. «Serviva una nuova arma contro una malattia che provoca più di 7.500 decessi l’anno», commenta il professor Sergio Baldari, direttore U.O.C. di Medicina Nucleare dell’Università di Messina. «Il Ra-223 è un radiofarmaco ad azione specifica sulle metastasi ossee. Emette radiazioni alfa ed ha dimostrato, rispetto ad altre terapie, di non indurre danni evidenti sul midollo osseo. Migliora in modo significativo la qualità della vita dei pazienti e, oltre a incrementare la sopravvivenza (del 30% di media), riduce il dolore osseo che contraddistingue la neoplasia». Il Ra-223 in Italia è a oggi disponibile in classe Cnn (non rimborsato dal Servizio sanitario nazionale), ma attualmente è in fase di negoziazione con l’AIFA che sta per inserirlo in fascia H, quindi a totale carico del Ssn. I radiofarmaci sono molecole che al loro interno possiedono almeno uno o più atomi radioattivi e vengono utilizzate dai medici nucleari a scopo sia diagnostico sia terapeutico. Un radiofarmaco diagnostico consente di individuare la posizione precisa del carcinoma e quale comportamento biologico stia assumendo la patologia. Ma le capacità di queste molecole di fissarsi sulle cellule tumorali può essere sfruttata anche per combattere la neoplasia. In questo caso si parla di radiofarmaco terapeutico che emette radiazioni che attaccano solo le cellule con cui il farmaco viene in contatto. « La medicina nucleare è sicura», sostiene Maria Luisa De Rimini, presidente del Congresso AIMN. «I radiofarmaci che utilizziamo di solito vengono somministrati con iniezione in vena. Il Ra-223 espone il paziente a dosi di radioattività estremamente basse e il suo impatto nell’ambiente è approssimabile a zero. Per evitare, comunque, eventuali dispersioni o problemi alle persone che vivono vicino al malato, è sufficiente seguire alcuni piccoli accorgimenti nei primi giorni di trattamento. A ognuno dei nostri pazienti vengono dati tutti i consigli necessari per proteggere familiari, amici e colleghi, nella prima settimana dalla somministrazione».
Il ruolo del medico nucleare all’interno del team multidisciplinare che cura i tumori è stato uno dei temi al centro del congresso di Rimini. «Il nostro compito principale è affiancare lo specialista clinico e valutare quando e se è appropriato l’uso di un determinato radiofarmaco», aggiunge il professor Baldari. «Il Ra-223 può essere utilizzato solo dopo aver verificato la presenza di metastasi ossee».
« La medicina nucleare utilizza sostanze radioattive per colpire le cellule tumorali», commenta il professor Geatti. «A differenza della radioterapia classica, però, la somministrazione delle radiazioni avviene dall’interno e non dall’esterno. L’idea che siano iniettati dentro l’organismo umano atomi radioattivi spaventa molti dei nostri pazienti. I radiofarmaci alfa emittenti hanno invece la capacità di legarsi e agire solo sui tessuti malati, risparmiando tutto ciò che sta attorno. Basta un foglio di carta o una siringa di plastica per creare una barriera invalicabile per queste particelle».
Gli esperti presenti a Rimini hanno ricordato che la somministrazione del Ra-223 richiede il rispetto di semplici norme di radioprotezione. Del tipo? Va somministrato (mediante un’iniezione lenta, generalmente fino a un minuto) in ricovero protetto con raccolta delle deiezioni ed è generalmente sufficiente un ricovero in regime di day hospital. Dopo un breve periodo di osservazione, il paziente può tornare al proprio domicilio, seguendo alcune semplici precauzioni per quanto riguarda il contatto con altre persone e le norme di vita quotidiana. Poiché la maggior parte della radioattività viene eliminata con le feci (solo una minima quota con le urine), per una settimana dalla somministrazione andando in bagno i pazienti dovranno prestare particolari attenzioni. A scopo precauzionale si suggerisce di ridurre al minimo i contatti a distanza ravvicinata con le donne in stato di gravidanza e con i bambini di età inferiore a dieci anni.
«La medicina nucleare è una disciplina importante e in continua evoluzione», sostiene la dottoressa De Rimini. «Grazie ad apparecchiature sempre più sofisticate e a terapie innovative siamo in grado di diagnosticare e curare molte patologie. La nostra specializzazione ha grandi capacità e molte potenzialità future. In quest’ottica, in particolare, oggi, nell’era della Medicina Personalizzata e dell’Imaging Multimodale con radiofarmaci, appare stringente la necessità di una costruttiva comprensione e di una collaborazione multidisciplinare, che guardi a percorsi diagnostico-terapeutici mirati con visione paziente-centrica. La nostra Associazione da oltre 25 anni è impegnata nel promuovere le conoscenze di questo specifico ambito della medicina ed estendere il confronto trasversale tra noi specialisti di settore, con le competenze multiple in esso rappresentate, con figure di altre specialità cliniche. Siamo certi che il nostro percorso necessiti di un’ulteriore comunicazione. Anche i non addetti ai lavori devono comprendere che la Medicina Nucleare è una metodica che consente diagnosi mirate e precoci», conclude De Rimini. «Essa può individuare come confezionare precocemente una terapia su misura per la patologia, aiutando il diritto di ciascuno a una medicina personalizzata».
Quali sono gli scopi principali dell’Associazione Italiana di Medicina Nucleare?
L’AIMN è un ente il cui scopo è la promozione dello sviluppo scientifico e applicativo dell’impiego medico e biologico delle proprietà fisiche del nucleo atomico. L’Associazione, riferimento in Italia delle attività di Medicina Nucleare e Imaging Molecolare, è nata nel 1990 a Venezia e conta oltre 800 iscritti. I principali obiettivi dell’AIMN sono:
- promuovere l’insieme di attività didattiche ed educative che servono a mantenere, sviluppare e incrementare le conoscenze, le competenze e le performances professionali in Medicina Nucleare e Imaging Molecolare per tutti coloro che, con qualsiasi qualifica o ruolo, hanno interesse culturale e professionale alla disciplina;
- elaborare proposte e standard tecnici relativi alla programmazione, organizzazione e sviluppo dell’impiego clinico, diagnostico e terapeutico, della Medicina Nucleare e dell’Imaging Molecolare;
- elaborare, anche in collaborazione con altre Società Scientifiche, trial di studio, linee guida, protocolli per l’impiego delle metodiche di Medicina Nucleare e Imaging Molecolare;
- favorire i rapporti con Associazioni nazionali e internazionali aventi caratteri culturali o professionali affini, prevedendo anche eventuali aggregazioni di tipo federativo;
- intervenire sui problemi socio-sanitari connessi con l’impiego dei radionuclidi;
- collaborare con il ministero della Salute, le Regioni, le Aziende sanitarie e gli altri organismi e Istituzioni Nazionali, Regionali, Provinciali, Comunali e Locali deputati a emanare Normative, Regolamenti, Linee Guida in materie attinenti la Medicina Nucleare e l’Imaging Molecolare.
Radiofarmaci e tumori
Oltre l’ 80% dei pazienti che ha risposto al trattamento mirato non invasivo, che permette di irradiare selettivamente specifici tessuti bersaglio quali i tumori neuroendocrini e altri tumori tra cui anche i tumori cerebrali, ha ottenuto un periodo libero da progressione di malattia di oltre 3 anni. È quanto emerge da uno studio dell’Istituto Scientifico Romagnolo per lo Studio e la Cura dei Tumori (IRST) – IRCCS di Meldola, che è stato presentato alla III Conferenza Internazionale sulla Ricerca Traslazionale in Oncologia. Attualmente in Italia e in Europa esistono pochi centri in grado di effettuare questo tipo di terapie mirate. Tra questi l’IRST è uno dei punti di riferimento a livello internazionale che attira pazienti anche dagli USA, dove la PRRT è disponibile in protocolli sperimentali da circa un anno. Giovanni Paganelli, direttore di Medicina Nucleare e Terapia Radiometabolica, spiega: « Il nostro Centro arruola e cura oltre 100 pazienti l’anno da oltre 6 anni e ha una delle maggiori casistiche internazionali nell’ambito dei tumori neuroendocrini. E non solo. Tutti questi pazienti avevano già eseguito i trattamenti standard che avevano dato come miglior risultato una remissione non superiore agli 11 mesi nel 60% dei casi ». Fiore all’occhiello della struttura è la radio-farmacia centralizzata con cui vengono create le terapie radianti “ su misura ”. Secondo gli esperti, sulla base di queste nuove acquisizioni sarà possibile disegnare protocolli di terapia mirata e personalizzata utilizzando sia dosi minime di radiazioni che un minor numero di esami nel corso del follow-up.
Che cos’è la medicina nucleare?
È una branca della medicina che utilizza farmaci con basse dosi di radiazioni (chiamati radiofarmaci) sia per la diagnosi che la terapia di alcune patologie. Si avvale soprattutto di radionuclidi artificiali (atomi radioattivi) che possono essere introdotti nell’organismo umano in vari modi tra cui aerosol, soluzione o sospensioni. Una volta dentro il corpo, essi si comportano come traccianti funzionali e consentono studi diagnostici. Oppure si concentrano in tessuti patologici, permettendone il riconoscimento. I radionuclidi sono legati a diverse sostanze, chiamate radiomarcate, che, in seguito alla loro somministrazione, partecipano ai processi metabolici allo stesso modo di quelle assunte a livello fisiologico. Attraverso l’uso di apposite strumentazioni e macchinari è possibile individuare la distribuzione del radiocomposto, seguire il suo percorso nell’organismo e “ fotografare ” l’organo o l’apparato in esame, valutando al tempo stesso le funzionalità. La medicina nucleare è una specialità in grande evoluzione e viene utilizzata per la diagnosi e cura di molte patologie in oncologia, endocrinologia, infettivologia, ortopedia e cardiologia. Spesso rappresenta uno strumento di ricerca insostituibile.
Come funziona un radiofarmaco?
Si tratta di molecole che al loro interno possiedono almeno uno o più radionuclidi. Sono utilizzate a scopo sia diagnostico sia terapeutico. Il farmaco è composto da due parti:
- il carrier ovvero una molecola che svolge il ruolo di trasporto;
- il nuclide radioattivo.
Un radiofarmaco diagnostico consente di individuare la posizione precisa del carcinoma e quale comportamento biologico sta assumendo la patologia. Con queste informazioni è possibile per il medico individuare la terapia personalizzata per il singolo paziente. Le capacità di queste molecole di fissarsi sulle cellule tumorali può essere sfruttata anche per combattere la neoplasia. In questo caso si parla di radiofarmaco terapeutico, il quale emette radiazioni che attaccano solo le cellule con cui viene in contatto. Una delle prime patologie a essere curate con la medicina nucleare è stato il tumore della tiroide. La proliferazione di questo cancro può essere efficacemente contrastata con lo Iodio radioattivo (o Iodio 131) che viene utilizzato dopo la rimozione chirurgica della ghiandola. La sperimentazione di questi particolari medicinali è iniziata negli Anni 40 negli Stati Uniti. In tempi più recenti, i radiofarmaci sono stati usati nella cura delle neoplasie del fegato. Attraverso l’iniezione di particelle nell’arteria epatica è possibile irradiare le cellule cancerogene. Nuove molecole sono allo studio, o sono già disponibili, per i tumori neuroendocrini, le metastasi del midollo osseo e il carcinoma della prostata.
La medicina nucleare è sempre sicura? Qual è il suo futuro?
I radiofarmaci sono solitamente somministrati tramite iniezione e le dosi di materiale radioattivo utilizzate sono molto basse (alcuni psicogrammi). Per questo il paziente rimane radioattivo per poco più di 24 ore. Il giorno successivo queste componenti sono eliminate dall’organismo attraverso feci e urine. Quindi chi assume radiofarmaci deve semplicemente seguire le normali norme igieniche e soprattutto lavarsi molto bene le mani, prima e dopo essere andato in bagno. In questo modo è possibile eliminare liquidi e fluidi che possono avere al loro interno anche una piccolissima quantità di materiale radioattivo. La disciplina è in continua evoluzione e, grazie ad apparecchiature sempre più sofisticate e terapie innovative, è ormai in grado di diagnosticare e curare molte patologie Nei prossimi anni sarà possibile utilizzare materiale radioattivo con una capacità di irradiazione maggiore rispetto a quella attuale. Gli attuali radiofarmaci possiedono radionuclidi che, disintegrandosi, emettono particelle beta (elettroni). È stata, invece, dimostrata l’efficacia delle particelle alfa, le quali sono molto più pesanti e per questo sono in grado di erogare maggiori quantità di irradiazione. Si aprono, così, nuovi orizzonti nella terapia radiometabolica. La specializzazione ha, quindi, grandi capacità e molte potenzialità future. Nell’era della medicina personalizzata e dell’Imaging Multimodale con radiofarmaci, appare stringente la necessità di una costruttiva comprensione e collaborazione multidisciplinare, che guardi a percorsi diagnostico-terapeutici mirati con visione paziente-centrica.
Il tumore della prostata in cifre
Il carcinoma prostatico nell’ultimo decennio è diventato il tumore più frequente nella popolazione maschile dei Paesi occidentali. Questo fenomeno, più che per la presenza di fattori di rischio, è dovuto alla maggiore probabilità di diagnosticare la malattia che è presente in forma latente nel 15-30% degli over 50 e in circa il 70% degli ottantenni.
Il cancro della prostata rappresenta circa il 20% di tutti i tumori diagnosticati a partire dai 50 anni. L’incidenza della malattia ha mostrato negli ultimi anni una sostanziale stabilità, dopo la crescita registrata tra il 1998 e il 2003, con la maggiore diffusione del test del PSA. Per il 2014 i nuovi casi sono stati 36.000, di cui 3.780 in Emilia Romagna.
Nel 2011 si sono osservati 7.520 decessi per cancro prostatico (fonte ISTAT). Nella quasi totalità dei casi i decessi riguardano gli over 70. Si tratta comunque di una causa di morte in costante, anche se moderata, diminuzione (– 1,8% per anno) da oltre un ventennio.
La sopravvivenza dei pazienti con cancro alla prostata, non considerando la mortalità per altre cause, è attualmente del 91% a 5 anni dalla diagnosi, in costante e sensibile crescita. Per i pazienti in vita dopo 1 e 5 anni, l’aspettativa di vita si mantiene stabile.
In Italia si stima siano presenti circa 217.000 persone con diagnosi di patologia prostatica: circa il 22% dei maschi con tumore e quasi il 10% di tutti i pazienti (tra maschi e femmine) del Paese. Il 65% di queste diagnosi è stato formulato da meno di 5 anni, il 10% da oltre 10 e, data la biologia della malattia, la maggior parte dei casi è riscontrata nell’età più avanzata (5.900 casi ogni 100.000 ultrasettantacinquenni).
Quali sono le terapie per il tumore alla prostata?
La maggior parte dei pazienti al momento della diagnosi presenta un tumore localizzato che non è ancora uscito dalla ghiandola. In questi casi si può procedere scegliendo fra diverse opzioni: chirurgia, radioterapia, brachiterapia e terapia focale. Per i pazienti che hanno un’aspettativa di vita superiore ai 10 anni la scelta d’elezione è la rimozione completa della prostata. In alcuni casi, dopo l’intervento, è necessaria la radioterapia o la terapia ormonale, la cosiddetta castrazione farmacologica, che punta alla riduzione dei livelli di testosterone, la benzina di cui le cellule neoplastiche hanno bisogno per poter crescere. Il 90% dei pazienti risponde bene a questo trattamento, ma dal momento che i livelli di testosterone nel sangue non si riducono mai del tutto, il recettore degli androgeni, che è il motore della reazione cancerosa, continua a essere attivo e il cancro può sviluppare resistenza alle terapie ormonali. In questo caso si parla di cancro prostatico resistente alla castrazione
Nuove opzioni per i pazienti che hanno sviluppato resistenza alle terapie ormonali sono ora disponibili dei nuovi trattamenti in grado di agire in maniera mirata sul bersaglio chiave della crescita tumorale, il recettore degli androgeni. Uno di questi è l’enzalutamide che ha dimostrato la sua efficacia in uno studio pubblicato sul “ New England Journal of Medicine ”, condotto su oltre 1.000 pazienti che non rispondevano più né agli analoghi agonisti dell’LHRH né alla chemioterapia. La molecola ha dimostrato di aumentare la sopravvivenza di questi pazienti e di diminuire le complicanze scheletriche associate al progredire della malattia.
Indirizzi utili
AIMN
Via Carlo Farini 81, 20159 Milano
aimn@legalmail.it
Presidente – Dr. Onelio Geatti
Azienda Ospedaliera Universitaria di Udine
Tel. 0432.552665
presidenza@aimn.it
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