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La chemioterapia “intelligente”!
Cristina Mazzantini, N. 6/7 giugno/luglio 2015
Ad oltrepassare le barriere fisiologiche, per portare con forza il farmaco al centro della cellula malata e bloccare la crescita del tumore, è la chemioterapia “intelligente” che utilizza particelle di dimensioni nanometriche, 100 volte più piccole di un globulo rosso. Quali sono i suoi vantaggi? «In questo modo è possibile superare la spessa barriera che circonda il cancro e somministrare il farmaco in dosi maggiori rispetto alla formulazione tradizionale ( +33% ), quindi aumentandone l’efficacia con meno effetti collaterali», ci risponde il professor Carmine Pinto presidente nazionale. dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM), che aggiunge: «La sopravvivenza è migliorata in maniera significativa in due fra i tumori più frequenti come quelli del seno e del polmone, che nel 2014 in Italia hanno fatto registrare 48.000 e 40.000 nuovi casi. E, per la prima volta in 20 anni, sono emersi risultati positivi anche nel tumore del pancreas, storicamente molto difficile da trattare».
A questo proposito è bene ricordare che le nanotecnologie sono state al centro del convegno nazionale sulle “Nuove frontiere nel trattamento dei tumori”, realizzato con il patrocinio dell’AIOM che si è tenuto recentemente a Bari e ha visto la presenza dei massimi esperti italiani. «Un nanometro equivale a un miliardesimo di metro. Le nanotecnologie stanno cambiando radicalmente la lotta alle neoplasie», ha spiegato ancora il professor Pinto, «perché aprono nuovi orizzonti nella personalizzazione del trattamento. Per la prima volta, infatti si può parlare di chemioterapia target. Una particella di circa 100 nanometri infatti è in grado entrare nella cellula, che ha un diametro compreso fra i 10.000 ai 20.000 nanometri, e di interagire con il DNA e con le proteine. La nuova terapia, nab-paclitaxel, consiste nell’impiego dell’albumina, una proteina umana naturalmente presente nell’organismo in dimensioni nanometriche, in cui viene racchiuso un farmaco chemioterapico (paclitaxel) che viene così trasportato direttamente nella sede del tumore». È già stata approvata nel nostro Paese nel tumore del seno e, lo scorso febbraio, l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ne ha stabilito la rimborsabilità per il trattamento del cancro del pancreas.
Nel capoluogo pugliese è stato sottolineato come la chemioterapia costituisca un’arma fondamentale nella neoplasia del seno. Oggi, grazie ai progressi compiuti negli ultimi anni, l’ 87% delle pazienti guarisce. Però, quando la malattia è in fase metastatica, le opzioni si riducono. Ecco perché è fondamentale disporre di un nuovo trattamento che ha dimostrato di migliorare la sopravvivenza del 20% nella patologia avanzata. Ma non solo. È stato anche evidenziato come nel 2014 in Italia si siano stati registrati ben 12.700 nuovi casi di tumore al pancreas. Con il 7% dei decessi, rientra tra le prime 5 cause di morte per cancro soltanto nel sesso femminile, ma nelle età centrali della vita (50-69 anni) occupi il quarto posto tra gli uomini e le donne con una percentuale simile pari al 7%. «È un nemico insidioso perché in fase precoce non mostra sintomi specifici e solamente il 15-20% dei casi è individuato in stadio iniziale», ha puntualizzato dottor Michele Reni, dell’Oncologia Medica IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano che commentando i dati presentati a Bari sottolineandoo come: «La chirurgia offre l’unica possibilità realistica per curare questa neoplasia. Ma, al momento della diagnosi, circa l’ 80% dei pazienti si trova in uno stadio in cui non è possibile garantire una radicale resezione chirurgica, perché la malattia è già metastatica o localmente avanzata. In questi casi l’aspettativa di vita media è compresa fra 3 e 6 mesi. Con nab-paclitaxel la sopravvivenza dei pazienti è aumentata del 27%. Si tratta di un risultato davvero straordinario»
C’è però una buona notizia come ha evidenziato sempre il presedente dell’AIOM affermando: «Si stanno aprendo prospettive importanti anche nel carcinoma del polmone non a piccole cellule, che comprende l’ 85-90% di tutti i casi di cancro del polmone. Nab-paclitaxel ha dimostrato di raggiungere un vantaggio in termini di risposte tumorali rispetto a uno degli standard internazionali di trattamento, rappresentato dalla combinazione di carboplatino e paclitaxel».
Il 40% delle neoplasie può essere evitato seguendo uno stile di vita corretto (no al fumo, attività fisica costante e dieta equilibrata). In particolare il fumo di sigaretta è responsabile del 90% dei casi di tumore del polmone ed è il fattore di rischio principale anche per quello del pancreas. È ormai noto come è stato dimostrato dalle maggiori statistiche internazionali: i tabagisti presentano una probabilità di sviluppare questa malattia da doppia a tripla rispetto ai non fumatori. La proporzione di carcinoma pancreatico attribuibile a questo vizio è del 20-30% nei maschi e del 10 per cento nelle femmine. Esercitano un’influenza notevole anche obesità, ridotta attività fisica e abuso di alcol.
«Non esiste a oggi la possibilità di uno screening di massa per il tumore del pancreas, per questo è fondamentale informare i cittadini sull’importanza di seguire uno stile di vita corretto», ha proseguito ancora il prof. Pinto chiarendo che: «AIOM nel 2015 realizzerà un tour in cinque Regioni per sensibilizzare medici e cittadini sulla prevenzione e sulle innovazioni nei trattamenti in questa patologia, come quella costituita da nab-paclitaxel, già impiegato con successo nel trattamento del carcinoma mammario metastatico nei casi in cui la terapia di prima linea non risulti più efficace». Sempre a Bari gli oncologi medici si sono confrontati sullo studio indipendente “GeparSepto” di fase III, presentato al San Antonio Breast Cancer Symposium nel dicembre 2014, nab-paclitaxel, somministrato prima dell’intervento chirurgico, ha dimostrato nelle pazienti colpite da tumore del seno in stadio iniziale ad alto rischio di migliorare del 9% la risposta patologica completa. Il trial indipendente, condotto dal German Breast Group (GBG) in associazione con il gruppo di studio German AGO-B, ha coinvolto più di 1.200 donne: il 38% delle pazienti trattate con nab-paclitaxel prima della chirurgia (neoadiuvante) ha raggiunto la risposta patologica completa rispetto al 29% di coloro che hanno ricevuto (prima dell’intervento chirurgico) il trattamento costituito da paclitaxel nella formulazione tradizionale seguito da epirubicina e ciclofosfamide. “GeparSepto” è lo studio randomizzato di fase III più grande realizzato con nab-paclitaxel e il primo completato sul tumore del seno precoce ad alto rischio. In particolare è stata dimostrata la superiore efficacia di nab-paclitaxel in una delle forme più aggressive, quella ‘triplo negativa’, in cui la risposta patologica completa è quasi duplicata con il nanofarmaco.
Che cos’ è la chemioterapia intelligente?
«È un’azione chemioterapica più selettiva aiuta a migliorare gli outcome nei pazienti affetti da tumori incurabili e difficili da trattare. La tecnologia brevettata nab (chemioterapico legato all’albumina formulato in nanoparticelle) di Celgene sfrutta la nanotecnologia per migliorare la somministrazione mirata delle terapie antitumorali», risponde il il professor Carmine Pinto, presidente AIOM.
Cos’è la tecnologia nab?
«Consiste nell’impiego dell’albumina, una proteina umana naturalmente presente nell’organismo di dimensioni quasi nanometriche, in cui vengono racchiusi farmaci chemioterapici che vengono così trasportati direttamente nella sede del tumore. Un nanometro corrisponde in scala 1/100 a una cellula ematica umana.
Come la tecnologia nab può migliorare l’azione mirata della chemioterapia?
La tecnologia unica di nanoparticelle legate all’albumina permette al chemioterapico di raggiungere più facilmente la sede del tumore perché migliora:
- la capacità di uscire dal flusso sanguigno
- la sua capacità di raggiungere la sede del tumore
- la sua captazione da parte delle cellule tumorali».
E conclude sempre il nostro esperto specificando come: «le particelle di albumina entrano naturalmente nel flusso sanguigno, a differenza dei chemioterapici tradizionali che devono essere disciolti in solventi. Questi ultimi possono, tra l’altro, provocare gravi reazioni allergiche, Successivamente, l’albumina nel flusso ematico si lega ai recettori sulle pareti dei vasi sanguigni. In tal modo il complesso albumina-farmaco viene trasportato al di fuori del vaso sanguigno. Grazie a questo meccanismo, nab-paclitaxel può attraversare le cellule endoteliali. Con nab-paclitaxel, la concentrazione di paclitaxel libera nell’organismo è 10 volte superiore a quella di paclitaxel convenzionale, permettendo una maggiore esposizione al farmaco rispetto alla formulazione tradizionale».
Qual è la posizione europea e quella italiana rispetto ai nuovi nanofarmaci?
Nell’Unione Europea, nab-paclitaxel (paclitaxel legato all’albumina formulato in nanoparticelle) è impiegato per il trattamento del tumore metastatico della mammella in pazienti adulti che hanno fallito il trattamento di prima linea per la malattia metastatica e per i quali la terapia standard, contenente antraciclina, non è indicata.
Il 20 dicembre 2013 nab-paclitaxel è stato inoltre approvato, in associazione a gemcitabina, per il trattamento di I linea di pazienti adulti con adenocarcinoma metastatico del pancreas dalla Commissione Europea, a seguito dell’opinione favorevole per consenso da parte del CHMP.
Il 16 marzo 2015 la Commissione Europea ha approvato nab-paclitaxel in associazione a carboplatino per il trattamento di prima linea del carcinoma polmonare non a piccole cellule in pazienti adulti non candidati a chirurgia curativa o a radioterapia.
In Italia il farmaco è rimborsato dal 2011 per il trattamento del tumore del seno metastatico. Nel febbraio 2015 è stata approvata dall’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) l’estensione delle indicazioni di nabpaclitaxel per il trattamento di prima linea in pazienti con adenocarcinoma del pancreas metastatico in combinazione con gemcitabina (Gazzetta Ufficiale numero 30 del 6 febbraio 2015).
Nanoparticelle “termiche” all’assalto dei tumori
Il Dipartimento di Ricerca e Sviluppo Farmaci dell’Istituto Italiano di Tecnologia, hanno sviluppato una nuova terapia mediata da nanoparticelle, applicata per il trattamento di alcune forme tumorali particolarmente aggressive come quelle al cervello.
Se si prende un pezzo di ruggine, tecnicamente chiamata ossido di ferro, e lo si taglia in piccoli cubetti, ciascuno di poche decine di nanometri di lato, quello che si ottiene non sono solo pezzi più piccoli di ruggine ma un nanomateriale completamente nuovo che possiede delle proprietà sfruttabili per la cura dei tumori. Infatti, se le nanoparticelle cubiche di ossido di ferro sono sottoposte a delle radiofrequenze tollerabili anche dal corpo umano, possono scaldare e il loro calore può essere usato per aumentare la temperatura, proprio dove le nanoparticelle sono state portate o accumulate. Se la loro destinazione è un tumore allora le stesse nanoparticelle agiscono da agenti tossici locali. L’aumento di temperatura è infatti molto meno tollerato dalle cellule tumorali, già di per sé sottoposte a condizioni di stress, rispetto alle cellule normali dei tessuti e degli organi. Questo approccio si chiama terapia di ipertermia mediata da nanoparticelle ed è stato recentemente applicato su pazienti per il trattamento di alcune forme di tumore al cervello. Molto bisogna ancora ottimizzare per fare dell’ipertermia un’arma più efficace e specifica contro tumori subdoli e aggressivi.
“Sviluppiamo nanomateriali sempre più efficienti per questo tipo di terapia. Inoltre cerchiamo di sfruttare l’aumento di temperatura come meccanismo di controllo esterno per il rilascio di farmaci chemioterapeutici che siano stati previamente associati alle nanoparticelle” afferma Teresa Pellegrino responsabile dello studio. Potenzialmente, seguendo questo approccio di rilascio modulato e mirato, le dosi di farmaco richieste per uccidere le cellule tumorali risulterebbero molto più basse e gli effetti collaterali, compresa la resistenza che le cellule tumorali sviluppano con l’attuale chemioterapia, sarebbero superate. Lo stesso principio di rilascio termico, può essere sfruttato per consegnare alle cellule in momenti precisi, più tipi di farmaci, ciascuno specifico verso sottopopolazioni tumorali diverse
Nanotecnologia del farmaco contro il tumore al pancreas
Rimane ancora tanto da fare, ma finalmente anche per uno dei tumori più temuti, l’adenocarcinoma del pancreas, arrivano dati incoraggianti. Tutto grazie alla nanotecnologia che ha messo a punto una strategia per nuovi farmaci utili contro questa neoplasia che rimane “uno dei 5 big killer”. Sono oltre 11mila i nuovi casi che si presentano ogni anno in Italia. Questo tumore, che è una delle prime 5 cause di morte nella fascia di età da 50 e 70 anni, sia nell’uomo sia nella donna, è una malattia subdola che viene scoperta quasi sempre tardi. In più del 60% dei casi al momento della diagnosi è metastatica, nel 30% è localmente avanzata e nel 10% è resecabile cioè suscettibile di eliminazione chirurgica. La sperimentazione MPACT, che ha visto Niguarda come centro coordinatore a livello nazionale, ha valutato l’efficacia dell’associazione del nuovo farmaco NabPaclitaxel (paclitaxel legato all’albumina in nano particelle) in associazione con gemcitabina, evidenziando dei dati importanti soprattutto per quanto riguarda la sopravvivenza valutata ad un anno. Il successo di questa associazione è dovuto alla preparazione del farmaco paclitaxel che viene racchiuso in un guscio di albumina in nano particelle (Nab). Queste micro-strutture sono compatibili con una componente fondamentale del sangue (l’albumina stessa). L’affinità permette da una parte alle molecole di paclitaxel di uscire dal flusso sanguigno con maggiore facilità, e di raggiungere le cellule tumorali in concentrazione maggiore, dall’altra di penetrare più facilmente all’interno della massa tumorale, aumentando l’efficacia clinica del farmaco. Qual è il meccanismo d’azione? L’uso della nanotecnologia nel farmaco Nab-Paclitaxel sfrutta i meccanismi utilizzati dalle cellule tumorali per nutrirsi per agire contro il tumore. L’albumina entra nelle cellule tumorali legandosi a una proteina chiamata SPARC (proteina acida secreta a ricca in cisteina). Il Nabpaclitaxel, essendo legato all’albumina, sfrutta il legame di quest’ultima con SPARC per far entrare subdolamente nella cellula tumorale il paclitaxel che, una volta rilasciato, aggredisce le cellule neoplastiche. Quindi il Nab-paclitaxel agisce come un cavallo di Troia, utilizzando e ingannando i processi vitali delle cellule tumorali. Notizia al convegno di Bari finalmente l’attesa del farmaco è conclusa con l’ok dell’Aifa. Bisogna ricordare che il trattamento non è risolutivo, ma costituisce tuttavia un importante miglioramento per uno dei tumori che rimane una delle diagnosi più impegnative. Il Nab-paclitaxel non è una cura definitiva, ma è un significativo passo in avanti, una base importante da cui partire per la ricerca a venire che contiamo al più presto possa raggiungere nuove conquiste.
Uno yogurt svela il cancro al colon
Un giorno forse potremo dire grazie a uno yogurt si eviterà la colonscopia. Almeno è quanto si augura la prof.ssa Sangeeta Bhatia, del Massachusetts Institute of Technology, che sta studiando la possibilità di utilizzare i batteri dello yogurt e un esame delle urine per sostituire le più costose e assai poco amate colonscopie nei controlli di routine per il cancro del colon. La ricercatrice sta sviluppando delle molecole sintetiche da introdurre nel corpo attraverso lo yogurt che potrebbero interagire con il cancro in modo tale da produrre dei biomarcatori descrittivi rilevabili molto semplicemente con un esame delle urine. La prima versione della tecnica era più complessa e prevedeva l’uso di strumentazioni da laboratorio per l’analisi delle urine. Ora invece il team diretto dalla prof. ssa Bhatia sta mettendo a punto un semplice test delle urine su carta simile a quello utilizzato dalle donne per sapere se aspettano un bambino. Su modello murino il test sembra funzionare. Il punto è la somministrazione di nanoparticelle grazie all’alterazione di un tipo di batterio che si trova nello yogurt e che produce molecole biomarcatrici dopo essere entrato in relazione con il cancro. L’approccio potrebbe rivoluzionare il campo della diagnostica, con una prima applicazione concreta proprio per il cancro del colon-retto, dove la diagnosi precoce risulta davvero fondamentale, dal momento che ben il 90 per cento delle persone colpite dal tumore sopravvive per almeno cinque anni se la neoplasia viene rivelata in tempo utile. Nella pratica, però, la percentuale scende al 40% perché molte persone si rifiutano di fare la colonscopia. Il docente di ingegneria biomedica della Columbia University, Samuel Sia, ritiene interessante l’idea della collega del MIT, anche se al momento, in assenza di dati clinici sull’uomo, è impossibile parlare già di una soluzione concreta al problema.
Una pillola scopre il tumore
Basterà una “pillola” per individuare un tumore con una semplice analisi del sangue. Siamo parlando di i una recente scoperta americana. Si tratta di una diagnosi così facile inseguita da decenni, che potrebbe diventare possibile in pochi anni grazie a una tecnica basata su nano-anelli di Dna, messa a punto nell’università californiana di Stanford e descritta sulla rivista dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti (Pnas). La tecnica si basa su una pillola che, una volta ingerita, libera nanoparticelle fatte di Dna che interagiscono con le cellule del tumore, producendo una proteina-spia solo quando entrano in contatto con le cellule malate. Perciò è sufficiente un prelievo di sangue e andare in cerca della proteina per sapere se c’è un tumore e quanto è esteso. I primi test sui topi sono incoraggianti e secondo i ricercatori, guidati da Sanjiv S. Gambhir, questa nuova tecnica di diagnosi precoce potrebbe diventare una realtà in pochi anni. Molti tumori, come quelli di prostata, colon-retto e ovaie, producono sostanze specifiche (marcatori tumorali), ma diverse fra loro. A complicare le cose, queste sostanze sono spesso prodotte anche dai tessuti sani e nei tumori ai primi stadi sono scarse per essere rilevabili. Per progettare un test valido per tutte le forme di tumore e efficace sin dai primissimi stadi i ricercatori hanno costruito i minuscoli anelli di Dna che contengono il gene che produce la proteina Seap (fosfatasi alcalina embrionale), prodotta esclusivamente negli embrioni umani. Quindi hanno modificato il gene in modo che venga attivato soltanto dalle cellule tumorali. Di conseguenza ogni volta che nel sangue è presente la proteina Seap, questa rivela l’esistenza di un tumore.
Nanotubi d’oro per combattere il cancro
La medicina e la cura delle malattie potranno in futuro beneficiare delle attuali ricerche ed innovazioni tecnologiche. L’ultima dimostrazione arriva dall’Università di Leeds, dove il team guidato dal dott. Sunjie Ye è al lavoro su una tecnica piuttosto particolare finalizzata a combattere il proliferare delle cellule tumorali: in breve, grazie all’impiego di nanotubi in oro potrebbe essere possibile sconfiggere il cancro e contribuire in questo modo a salvare delle vite umane.
L’immagine raffigurata in apertura è solamente un render, comunque utile per capire di cosa si tratta. Come ben comprensibile già dal nome, si tratta di piccoli elementi dalla forma tubolare (ovvero caratterizzati nella parte interna), che possono svolgere tre differenti funzioni, complementari ai fini del trattamento: identificazione tempestiva della zona interessata, trasporto dei farmaci per una somministrazione mirata ed eliminazione delle cellule patogene in modo non invasivo.
Una volta stimolati attraverso laser a infrarossi, i nanotubi sono infatti in grado di riscaldarsi ed emettere luce, così da individuare la parte di tessuto da trattare. Una frequenza differente del fascio luminoso, maggiormente elevata, può invece scaldare il materiale fino a bruciare letteralmente le cellule dannose che si trovano nei dintorni.
Al momento il test è stato condotto con risultati incoraggianti solamente su un tumore umano riprodotto all’interno di cavie in laboratorio, dunque prima di poter avviare una sperimentazione sull’uomo serviranno altri studi e un lungo periodo di perfezionamento. I vantaggi legati all’impiego di una tecnica simile sono innumerevoli, soprattutto se la si mette a confronto con gli effetti collaterali di chemioterapia e radioterapia. Tutto questo senza contare che i nanotubi in questione, introdotti nel corpo mediante una semplice iniezione, verrebbero poi espulsi dal corpo in modo del tutto naturale, senza arrecare danno all’organismo. Lo studio è stato pubblicato sulle pagine della rivista scientifica Advanced Functional Materials.
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