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Dolore oncologico: perchè circa il 40% dei malati non vuole curarlo?
Paola Sarno, N. 12 dicembre 2014
Chi ha letto il famoso romanzo di Umberto Eco, “Il nome della Rosa”, ricorderà che nella mentalità medievale era considerato pericoloso e potenzialmente demoniaco tutto ciò che aveva a che vedere con la gioia, compresa la lettura degli stessi classici greci sull’argomento. Sarà proprio per nascondere il secondo libro della Poetica di Aristotele, dedicato proprio alla commedia e in particolare al riso, che nel fosco monastero benedettino si innescherà, infatti, una infinita spirale di delitti. Anche se dai quei tempi sono passati molti secoli, il pregiudizio in base al quale sarebbe necessario sopportare il dolore ancora non è stato sfatato del tutto nella cultura collettiva, ma nemmeno elaborato dalla nostra memoria genetica, inevitabilmente intrisa anche dei retaggi più arcaici e deteriori di certa cultura cattolica. Una prova di ciò, in sanità, risiede – per esempio – nel fatto che, mentre si ricorre al parto cesareo molto più spesso di quanto sarebbe necessario (e ciò con notevole aggravio della spesa sanitaria), ancora fino a pochi anni fa in gran parte dell’Italia l’analgesia epidurale veniva offerta alle puerpere solo da poche strutture sanitarie, per lo più private. Un lusso per poche mamme, insomma, mentre il destino delle altre era quello di “partorire con dolore”. E se, in questo senso negli ultimi anni si è assistito ad un graduale cambio di paradigma, molto bisogna fare ancora per convincere tutti, pazienti, ma anche familiari, medici e personale sanitario di quanto, invece, sia necessario che la lotta al dolore inutile divenga una priorità per tutti. Purtroppo però a volte sono i pazienti per primi a non essere convinti che il dolore sia una vera e propria malattia da curare. Da un sondaggio, realizzato dall’Istituto di ricerche Doxapharma in collaborazione con la Società Italiana di Cure Palliative (SICP) con il supporto incondizionato di Teva, leader mondiale nel campo dei farmaci equivalenti, è infatti emerso che quasi la metà dei malati oncologici sopporta silenziosamente il dolore, ritenendolo implicito alla malattia stessa. E, benché le legge 38/2010 autorizzi nel nostro Paese l’uso di farmaci per il trattamento del dolore e obblighi gli operatori sanitari ad alleviarlo in tutte le sue forme, sembra che sia proprio una parte consistente dei pazienti neoplastici a rifiutare i farmaci antidolorifici.
Btcp: un fenomeno ancora troppo poco conosciuto
La ricerca, che è stata presentata durante l’ultimo Congresso Nazionale della Sicp, tenutosi recentemente ad Arezzo, ha coinvolto oltre 300 specialisti di tutto il territorio nazionale. Il campione preso in esame da Doxapharma riguarda, infatti, non solo la quasi totalità degli hospice italiani, ma anche gli specialisti che operano a domicilio nelle cure palliative (dal latino “pallium”, cioè “mantello”, un manto che avvolge l’ammalato con tutta una gamma di interventi finalizzati a migliorarne la qualità di vita in tutte le fasi della malattia) ai quali è stato erogato un questionario via web, sono stati interpellati medici palliativisti e infermieri da Nord a Sud della Penisola. Tema centrale dell’indagine era il breakthrough cancer pain (Btcp), (dolore episodico intenso o Dei): un fenomeno, spesso improvviso e imprevedibile, che colpisce soprattutto malati oncologici in fase terminale già trattati con oppioidi. Questa tipo di sintomatologia dolorosa estremamente devastante dal punto di vista psicofisico è stata considerata molto rilevante dalla maggioranza degli operatori sanitari intervistati ( 58% di palliativisti e 78% di infermieri). Tuttavia, stando al campione della ricerca, il 70% dei palliativisti e 79% degli infermieri ritiene che sia ancora sottostimata. Il problema – hanno rilevato all’unisono palliativisti e infermieri -, è che il Btcp non è facile da diagnosticare, soprattutto perché ancora mancano definizioni universalmente condivise. Per i non addetti ai lavori come i i familiari dei malati o coloro che si prendono cura a tempo pieno, il breakthrough cancer pain è invece un fenomeno quasi sconosciuto. Eppure sui malati ha effetti devastanti. È qualcosa di “atroce” e “lacerante”, secondo le testimonianze raccolte dai ricercatori; “una coltellata improvvisa” che “impedisce di ragionare e rimanere lucidi”.
Quando la “memoria del dolore” non fa piu’ vivere
Una tipologia di dolore, quindi, che compromette pesantemente la qualità della vita dei pazienti in tutti i suoi aspetti: dall’alimentazione al sonno, dalla mobilità alle relazioni sociali. Dai dodici colloqui individuali condotti dai ricercatori Doxapharma con specialisti, infermieri e caregiver (che si sommano alle 300 risposte via web), emerge che i malati colpiti da Btcp tendono a evitare di alzarsi dal letto per timore che il dolore ritorni; a riposare male; a rifiutare il cibo e infine ad auto-isolarsi. Non solo: il Btcp innesca sentimenti di sconforto, genera ansia e suscita paura. Si tratta di ciò che i medici palliati visti definiscono la “memoria del dolore” : una volta provata una sofferenza così lancinante, il malato vive nel timore costante che gli possa succedere di nuovo qualcosa di altrettanto terribile. Così, anche quando avverte un dolore sopportabile, torna con la memoria all’episodio precedente e gli sembra di non poter resistere. Anche perché l’equilibrio psicofisico già pesantemente compromesso dalle cure oncologiche (chemio e/o radioterapiche) ha anche a che fare con ciò che gli oncologi e psicologi operanti in questo campo chiamano fatigue: una sensazione di spossatezza estrema e cronica che a volte perdura anche dopo anni e anche in chi è riuscito a superare il tumore.
Le soluzioni ci sono, ma restano resistenze e paure
E, invece, per controllare il Btcp possono essere impiegati oppioidi a rilascio rapido, molti dei quali per via orale o in formulazioni sublinguali, stick e spray, che si sono rivelati efficaci nel ridurne l’effetto negativo, con ovvie conseguenze benefiche sulla qualità di vita dei pazienti oncologici. Eppure, dalla ricerca Doxapharma emerge che una grande parte dei pazienti colpiti da Btcp (il 46% secondo i palliativisti e il 33% secondo gli infermieri) chiede di non essere trattato. Un dato sorprendente. Piero Morino, direttore del coordinamento cure palliative dell’Azienda Sanitaria di Firenze e membro del direttivo Sicp, parla di “sindrome dell’eroe”.
Il paziente pensa che l’efficacia delle cure dipenda da quanto lui sia bravo o sopportare il dolore. Quindi minimizza o tace, oppure dice “resisto”. Una follia, perché la resistenza nel paziente oncologico non è un concetto terapeutico. Anzi, compromette gravemente lo stato di salute già precario dell’individuo ammalato. Tuttavia questa spiegazione non sembra sufficiente a spiegare le motivazioni intrinseche degli ammalati. Un altro forte motivo, è che in Italia permane una forte resistenza nei confronti degli oppioidi. E, infatti, sebbene l’Italia sia inserita dall’Oms nell’elenco dei Paesi che hanno un sistema fra i più avanzati per le cure palliative, quanto a uso di oppioidi siamo ancora all’ultimo posto in Europa. Perché? Solo per ragioni “culturali”? Non solo: «La morfina viene associata a un farmaco-pre morte», ha spiegato Morino. «Invece, se usata in modo appropriato, così come tanti altri oppiodi utilizzati da noi palliativisti, è un analgesico efficace e con pochi effetti collaterali». Ed è anche la comunicazione insufficiente a giocare un ruolo pesante in negativo. Perché se il malato, secondo l’indagine realizzata da Doxapharma e Sicp, è il primo a segnalare il Btcp, non ha però le parole per descriverlo correttamente e nè gli strumenti per riconoscerlo. E su questo punto medici e infermieri palliativisti sono d’accordo: bisognerebbe spiegare molto meglio al paziente di che cosa si tratta e rassicurarlo sul fatto che il dolore può essere efficacemente controllato proprio attraverso quei farmaci che, invece, nell’immaginario collettivo, fanno ancora tanta paura. Solo cercando di capire perché un malato ha dolore e quali sono le sue paure più profonde, lo si può aiutare a combatterle e migliorare la sua qualità di vita.
XXI Congresso SICP: cure palliative sotto il segno dell’appropriatezza
La SICP ha scelto quest’anno, come tema cardine del XXI Congresso nazionale, quello dell’appropriatezza delle cure. Un tema cruciale per lo sviluppo delle cure palliative nel nostro Paese, in ambito clinico (per garantire cure ed assistenza sempre più centrate sul malato e sui suoi bisogni e preferenze), organizzativo (per lo sviluppo di un welfare sostenibile e di grande qualità), relazionale ed etico (per offrire al malato e ai familiari scelte terapeutiche consapevoli e una pianificazione delle cure coerente ai loro desideri). Il Congresso di Arezzo, patrocinato dalla Presidenza della Repubblica, dal Ministero, dall’Istituto Superiore di Sanità, dal Cnr, da molte società scientifiche, nonchè dagli enti locali e dagli Ordini dei Medici, degli Psicologi e degli Assistenti Sociali. È stata un’occasione importante di confronto aperto e documentato su moltissime tematiche, dalla formazione delle diverse professionalità che operano in questo campo al lavoro di équipe, dalla comunicazione verso ammalati e loro familiari, dalle nuove terapie per lenire il dolore alla terapia occupazionale, alle cure in hospice a domicilio, dalla sessualità negata degli adulti alle cure palliative e ai diritti dei bambini che non guariranno fino ad arrivare alla spiritualità e al confronto con la perdita di un proprio caro e con il lutto.
Sia fatta la mia volontà: un libro per imparare a vivere e a morire bene
Invecchiare è disdicevole, morire inaccettabile. La morte è diventata un pensiero da respingere, la medicina ha il dovere di annientarla. Come un nemico, quello più tremendo. Il senso di sconfitta verso la fine diventa allora insopportabile. Un libro della filosofa Marina Sozzi, “Sia fatta la mia volontà” – Ripensare la morte per cambiare la vita (Chiarelettere, collana Reverse, pagg. 272, euro 13,60 – euro 9.99 in e-book) aiuta a toglierci questo peso, a rendere più leggera la vita, ripensando e accettando la morte come un evento naturale, che ci appartiene. Come ha scritto Umberto Veronesi, “La morte è un dovere biologico ed è necessaria per il processo evolutivo della specie. Dobbiamo lasciare spazio e risorse per le nuove generazioni… La sofferenza, invece, non serve a nulla”. E il libro di Sozzi, nel quale trova spazio, come utopia minimalista il tema delle cure palliative, è tutto teso a far comprendere come tutti abbiamo “diritto” a morire bene e come vogliamo, ad alleviare il dolore fisico nostro e degli altri, contrastando la paura del distacco, accettando di essere fragili senza soffrirne. Anzi, con la consapevolezza che la ricetta principale della felicità risiede proprio nell’accettazione della fine, che rende unico ogni singolo attimo.
Lorenzin alla UE per una “giornata europea per le cure palliative”
Cure palliative, terapia del dolore? Argomenti che sembra che stiano a cuore anche al nostro Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin. In un suo intervento in qualità di Presidente di turno del Consiglio Salute della Ue durante il “Consiglio informale dei ministri della Salute dell’Ue” di Milano ha dichiarato, infatti, di voler personalmente ed immediatamente inserire nell’agenda dei lavori questo tema in quanto «assolutamente fondamentale in una società come quella europea che invecchia e che vede crescere il numero di ammalati cronici». Un numero, quello degli utra 65enni, che passerà da 87 milioni di cittadini nel 2010 a 148 nel 2060. «È quindi essenziale», ha aggiunto Lorenzin, «lavorare per consentire a questa fascia di popolazione di vivere in salute e in modo attivo per molti anni, e considerare in questo percorso anche la messa a disposizione di strumenti, di procedure e di un’organizzazione che garantiscano un adeguato contrasto al dolore cronico, e – nei casi più gravi, non altrimenti affrontabili – cure palliative. Né si possono dimenticare le esigenze specifiche della fascia d’età pediatrica in questi ambiti. In Italia – ha rammentato Lorenzin, grazie alla Legge 38/2010 – abbiamo un sistema che coinvolge non solo le autorità sanitarie nazionali ma anche quelle regionali e locali nella gestione di questa problematica, attraverso la creazione di reti ad hoc. Tali reti mirano, oltre che ad erogare questo tipo di cure, a comunicarne la disponibilità ai cittadini, a garantire l’accesso ad esse, a monitorare i risultati raggiunti ed a formare adeguatamente gli operatori sanitari». E, in quest’ambito «si pone anche il problema della valorizzazione delle attività delle organizzazioni non profit, del ricorso ad approcci alternativi alla terapia del dolore, ad esempio attraverso terapie non farmacologiche nel dolore pediatrico, e della sperimentazione di approcci antalgici innovativi in coloro che non rispondono alle cure tradizionali», ha ribadito. «Tutto questo deve avvenire, a nostro parere, senza dimenticare il principio fondamentale dell’umanizzazione delle cure, inteso come l’attenzione a tutti gli aspetti della persona, non solo fisici ma anche psicologici e relazionali. Tale approccio implica che i professionisti sanitari si rendano partecipi dei bisogni, delle opportunità e delle risorse delle persone assistite e delle loro famiglie». Per far ciò Lorenzin, ha suggerito di iniziare un percorso di azione condivisa «attraverso l’adozione di strategie e modelli assistenziali simili, partendo dalle best practices esistenti». Fatta salva l’autonomia organizzativa dei diversi Stati Membri, il progetto dovrà quindi tendere a garantire l’accesso a tali cure ad ogni cittadino. Per Lorenzin, è infatti «di fondamentale importanza che si garantisca l’accesso alla terapia del dolore e a tutti i farmaci attualmente disponibili ed essenziali necessari per le Cure Palliative e per la Terapia del dolore con particolare attenzione ai farmaci oppioidi, per ridurre le disuguaglianze sanitarie esistenti tra regioni e tra Stati membri dell’Ue nell’ambito della equità del diritto alla salute». Tuttavia, secondo Lorenzin, per far ciò è necessario «conoscere pienamente adeguati i percorsi assistenziali esistenti per gestire la problematica del dolore cronico e delle cure palliative, anche sul versante farmacologico. Sul versante delle proposte», ha concluso il ministro, rivolgendosi all’assemblea Ue, «vorremmo sapere su quali aspetti pensate che si possa sviluppare un approccio condiviso, come si possa garantire l’accesso a queste cure e quali modalità di comunicazione pensate sia opportuno adottare sia per sensibilizzare sull’argomento pazienti ed operatori». Per far ciò Lorenzin ha chiesto, infine, di considerare l’idea di dare a questo tipo di cure la priorità nell’ambito del progetto Horizon 2020 e del terzo Programma sulla salute pubblica, chiedendo alla Ue di istituire una “Giornata europea per le cure palliative”.
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