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La molecola che uccide le cellule tumorali “ubriacandole”

Vera Lanza, N. 12 dicembre 2014

Passi avanti contro il tumore alla tiroide, in particolare contro il carcinoma papillare o carcinoma papillifero che è il tumore tiroideo più frequente rappresentando circa l’ 80% delle neoplasie tiroidee. Fortunatamente, oltre ad essere il più frequente, il carcinoma papillare è anche quello con prognosi migliore, soprattutto se al momento della diagnosi non sono presenti metastasi. Un gruppo di ricercatori della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, guidati da Maria Grazia Borrello dell’Unità meccanismi molecolari del Dipartimento di oncologia sperimentale e medicina molecolare, ha identificato un meccanismo alternativo all’apoptosi, per indurre la morte delle cellule tumorali, e cioè “ubriacandole”. I ricercatori hanno identificato in laboratorio una piccola molecola in grado di distruggere le cellule tumorali nel carcinoma papillare della tiroide. Lo studio, finanziato dall’AIRC, è stato pubblicato sulla rivista scientifica Oncotarget e presentato al congresso europeo dell’EACR, European Association for Cancer Research, che si è svolto in Germania a Monaco nel luglio scorso. I ricercatori hanno scoperto che la molecola chiamata “miR-199a-3p” generalmente presente a bassi livelli nel carcinoma della tiroide quando reintrodotta agisce “intossicando” le cellule tumorali. La sua produzione, infatti, porta le cellule del tumore a riempirsi di liquido extracellulare fino a scoppiare causando una morte in massa di queste cellule. È interessante il meccanismo attraverso il quale la molecola agisce: si chiama metuosi. L’origine greca della parola vuol dire “bere fino all’intossicazione”. Il processo di metuosi, identificato per la prima volta dal ricercatore statunitense William Maltese nel glioblastoma, ad oggi è ancora poco conosciuto ed è ben differente dalla più nota forma di morte cellulare chiamata apoptosi che innesca meccanismi di autodistruzione delle cellule. «Tale risultato – spiega Maria Grazia Borrello, biologa dell’Unità meccanismi molecolari del Dipartimento di oncologia sperimentale e medicina molecolare dell’Istituto dei tumori – è d’interesse sia per i pazienti con carcinoma papillare della tiroide, sia in generale per terapie antitumorali innovative. Il carcinoma papillare della tiroide è in costante crescita e sebbene generalmente sia associato a una buona prognosi dovuta alla risposta positiva ai trattamenti chirurgici o con radioterapia, il 10% dei casi presenta una malattia progressiva e resistente alle terapie tradizionali. Il miR-199a-3p rappresenta una potenziale strategia terapeutica. Inoltre, essendo le cellule tumorali frequentemente resistenti all’apoptosi, l’identificazione di un meccanismo alternativo per indurne la morte è di sicuro interesse anche per altre patologie tumorali. Recentemente – sottolinea il direttore scientifico dell’Istituto dei tumori Marco Pierotti – sulla rivista Cell1 è stata data nuova evidenza all’argomento, in quanto è stato identificato un composto, Vacquinol-1, in grado di indurre morte per metuosi in cellule di glioblastoma. La scoperta del gruppo di Maria Grazia Borrello si inserisce in questo nuovo campo di ricerca cui contribuisce identificando per la prima volta nel carcinoma papillare tiroideo questo nuovo MicroRNA tra i meccanismi di induzione della metuosi».

Il tumore della tiroide
Il carcinoma della tiroide è un tumore maligno relativamente poco frequente: costituisce l’ 1-2% di tutti i tumori e colpisce maggiormente le donne (il rapporto è 3:1 donna:uomo) in una larga fascia di età dai 25 ai 70 anni con picco intorno ai 50. I noduli tiroidei sono molto frequenti ma sono tumorali solo nel 5% dei casi. L’incidenza dei carcinomi tiroidei è raddoppiata nella scorsa decade, probabilmente anche a causa di un’aumentata efficienza nella diagnosi, infatti è variata nonostante l’aumento dell’incidenza, la mortalità per carcinoma tiroideo non è aumentata. In base ai dati tratti da Cancer Statistic 2013 dell’American Cancer Society, nel 2013 sono stimati negli Stati Uniti circa 60000 nuovi casi e 1850 morti per carcinoma tiroideo. In Italia il tumore delle tiroide è il quarto per prevalenza preceduto dai tumori della mammella del colon-retto e dell’utero. Tra i fattori di rischio, è noto e accertato quello rappresentato dall’esposizione a radiazioni, sia nelle persone sottoposte a radiazioni terapeutiche sia esposte a materiale radioattivo, come nel caso del disastro di Chernobyl. Il carcinoma della tiroide comprende diversi istotipi: papillare (il più frequente che rappresenta circa l’ 80-85% dei casi), follicolare, poco differenziato, midollare e anaplastico. Il primo, il carcinoma papillare dà metastasi linfonodali con localizzazione limitata, spesso per lungo tempo, ai soli linfonodi del collo; solo successivamente il tumore metastatizza fuori dal collo. Per questo motivo, nel 30% dei casi, il carcinoma papillare può presentare metastasi linfonodali già al momento della diagnosi. Attenzione alla prevenzione e ai controlli: non sono sufficienti gli esami del sangue, in quanto questi saranno quasi sempre nella norma. Gli esami più importanti nella diagnosi del tumore papillare sono l’ecografia e l’ago aspirato tiroideo. L’ecografia tiroidea, infatti, permette la stima delle dimensioni e delle principali caratteristiche del nodulo tiroideo. Alcune di queste caratteristiche (ipoecogenicità, disomogeneità, irregolarità dei margini, vascolarizzazione intranodulare), soprattutto se associate, possono orientare decisamente verso la diagnosi di tumore papillare della tiroide soprattutto in presenza di franche metastasi linfonodali. Tuttavia, per una diagnosi certa, è necessario l’ago aspirato del nodulo sospetto. L’ago aspirato tiroideo è una metodica minimamente invasiva che consente una diagnosi certa e sicura del tumore tiroideo. Il razionale dell’ago aspirato tiroideo consiste nel prelevare alcune cellule tiroidee contenute nel nodulo per studiarne le caratteristiche e capire se presentano le caratteristiche tipiche del carcinoma papillare. La causa del carcinoma papillare è sconosciuta. Tuttavia esistono dei fattori di rischio per lo sviluppo del tumore della tiroide che vanno dalle radiazioni ionizzanti alla carenza iodica, dall’autoimmunità alla familiarità.

Nuove terapie mini-invasive contro i noduli alla tiroide basate su laser o elettrodi
Arrivano nuove terapie “mini-invasive” contro i noduli alla tiroide, una delle malattie endocrine più comuni che interessa fino al 25% della popolazione italiana. Le lesioni benigne meno complesse potranno essere trattate con questo nuovo tipo di chirurgia, che permette di ridurne il volume senza necessità di anestesia generale e di ricovero in ospedale, evitando inoltre il danno estetico e il rischio di complicanze. «Le nuove terapie mini-invasive – afferma Enrico Papini, Direttore UOC Endocrinologia e Malattie Metaboliche, Ospedale Regina Apostolorum, Albano Laziale e organizzatore di un convegno sul tema che si è svolto ad Ariccia – portano ad una diminuzione significativa e persistente del volume dei noduli e dei sintomi. Tra le diverse tecniche mini-invasive tre – sottolinea Papini in una nota – sono le più efficaci e le più semplici da applicare. Tutti questi metodi – precisa – hanno il vantaggio di non richiedere l’anestesia generale e di distruggere una minima parte del tessuto tiroideo, permettendo quindi di preservare la funzione ghiandolare della tiroide. Per le cisti tiroidee viene utilizzata l’iniezione di etanolo nelle cisti, dopo aver aspirato il liquido contenuto in esse; questo trattamento dura pochi minuti, non ha costi se non quelli dell’etanolo sterile, è minimamente doloroso e soprattutto sicuro. Per i noduli si usa invece l’ablazione termica che può essere eseguita con due tecniche: laser oppure elettrodi». «Con entrambe le metodiche – spiega ancora Papini – l’aumento di temperatura del tessuto tiroideo provoca un danno cellulare localizzato e irreversibile che porta ad una diminuzione del volume nodulare di circa il 50% che persiste per anni dopo una sola seduta». Il 90% dei noduli tiroidei, ricorda la nota, sono benigni e sono correlati a bassa concentrazione di iodio nell’ambiente, elemento fondamentale per la produzione degli ormoni, e a familiarità. Nel caso di noduli maligni le cause sono ancora la familiarità ma, più importante, anche l’esposizione a radiazioni o a trattamenti terapeutici come la radioterapia della testa e del collo. La maggior parte dei noduli tiroidei benigni rimangono stabili nel tempo e non necessitano di trattamenti. Alcuni, tuttavia, tendono a crescere progressivamente e a causare sintomi locali, in questi casi si tende a limitare gli interventi chirurgici ai soli pazienti che presentano ipertiroidismo.

Tiroide in provetta dalle cellule della propria pelle
In futuro, un paziente che deve togliere la propria tiroide malata o con tumore potrebbe vedersi sostituita la ghiandola con una fatta su misura per lui in provetta a partire da un gruppetto di cellule prese dalla sua pelle. L’idea scaturisce da alcuni esperimenti per ora eseguiti con cellule di topi e presentati al 41° Congresso Annuale della Società Europea degli Organi Artificiali (ESAO), che si è tenuto al Centro Congressi Giovanni XXIII dell’Università Cattolica del Sacro Cuore – Policlinico A. Gemelli di Roma. Il gruppo, diretto da Sabine Costagliola dell’Università di Bruxelles, ha dimostrato che è possibile trasformare cellule staminali pluripotenti in cellule tiroidee perfettamente funzionanti. «Di qui l’idea di lavorare insieme per provare a ripetere lo stesso risultato usando cellule umane» spiega Celestino Pio Lombardi, direttore dell’Unita’ di Chirurgia Endocrina del Gemelli presso il CIC dell’Università Cattolica, presidente dell’evento. Oggi, spiega, «le malattie tiroidee e i tumori della ghiandola che ne richiedono l’asportazione sono sempre più diffusi e i pazienti che subiscono l’asportazione devono poi prendere ogni giorno gli ormoni tiroidei sostitutivi che, comunque, non sempre risultano una terapia efficace. Per molti di questi pazienti si guarda al futuro con la sostituzione della ghiandola o con una terapia cellulare in grado di ripristinare, nell’organismo un quantitativo adeguato di cellule tiroidee funzionanti. Tuttavia – ammette Lombardi – non sono andati a buon fine tentativi di impiantare nella muscolatura dei pazienti operati, cellule ancora sane della loro tiroide, come si fa efficacemente con le paratiroidi». Per questo, vi è la volontà di intraprendere una strada ancora più coraggiosa, ma molto lunga da provare. Così come ha fatto la professoressa Costagliola utilizzando cellule di roditore, a produrre in provetta cellule tiroidee funzionanti su misura di paziente. «Vorremmo tentare, con una collaborazione con il laboratorio della Costagliola – spiega Lombardi – di prendere cellule staminali dal sottocute di pazienti e trasformarle con adeguati stimoli in cellule tiroidee in grado di produrre gli ormoni. Un approccio questo, che si sa, richiederà molto tempo prima di ottenere risultati verificabili».

In Sicilia sono 250 mila i pazienti colpiti da ipotiroidismo
Sono oltre 250.000 in Sicilia le persone colpite da ipotiroidismo. Proprio in una città siciliana, a Messina, si è svolto, organizzato dalla Simg, Società Italiana di Medicina Generale, un convegno sui problemi della tiroide e dell’ipotiroidismo, la più diffusa malattia che colpisce questa ghiandola. L’ipotiroidismo colpisce il genere femminile nell’ 80% dei casi con picchi fino al 10-15% nel periodo post-menopausale. «Il territorio siciliano è caratterizzato da una importante carenza iodica che si ripercuote sulla salute della tiroide – afferma Gerardo Medea, responsabile Area metabolica Simg -. Le malattie della tiroide sono molto diffuse e, secondo i dati dell’ultimo rapporto Health Search realizzato dall’istituto di ricerca della Simg, tra i nostri assistiti le persone con ipotiroidismo rappresentano già oggi una quota importante, 1 su 20». L’ipotiroidismo è una delle patologie per le quali ci si affida di solito all’attenzione del medico di famiglia che è chiamato a riconoscerne i primi segni per l’invio al consulto dello specialista endocrinologo. Ma dopo la diagnosi e l’impostazione della terapia, il medico di medicina generale è responsabile della gestione complessiva del paziente e ha l’obiettivo di dare risposte sempre più appropriate, Simg, in collaborazione con gli specialisti, ha identificato i temi di maggiore interesse e ha avviato un percorso di aggiornamento e approfondimento per la gestione quotidiana dei pazienti.

Nuove linee guida dagli Stati Uniti per l’ipotiroidismo
Le nuove linee guida sull’ipotiroidismo elaborate dalla American Thyroid Association e pubblicate sulla rivista Thyroid, confermano l’approccio terapeutico attuale, costituito anche se riconoscono che alcuni pazienti sottoposti al trattamento standard non trovano una salute ottimale con la sola terapia a base di Levotiroxina (L-T4). Secono gli esperti dell’associazione americana, le nuove conoscenze sulla fisiologia della tiroide possono aiutare a chiarire queste differenze di reazione al trattamento e aiutare la cura dei pazienti. Gli autori hanno esaminato la letteratura clinica relativa a tre principali categorie terapeutiche: terapia con levotiroxina; terapie ormonali della tiroide (compresi gli estratti tiroidei, la terapia di combinazione sintetica, terapia triiodotironina); e l’uso di analoghi dell’ormone tiroideo. La task force ha concluso che levotiroxina dovrebbe rimanere lo standard di cura per il trattamento di ipotiroidismo, e fa notare che non sempre si riscontra una forte evidenza a sostegno della superiorità delle terapie alternative. «Queste linee guida molto esaustive offrono una splendida panoramica sulle prove cliniche correnti relative alla modalità di trattamento per i pazienti con ipotiroidismo» dice Peter A. Kopp, direttore della rivista Thiroyd. «Inoltre – ha concluso – il documento mette in evidenza le lacune nella nostra conoscenza e indica quali argomenti hanno bisogno di ricerche future».

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