Si tratta principalmente di una patologia dell’anziano: due terzi dei casi si.....
"> Si tratta principalmente di una patologia dell’anziano: due terzi dei casi si.....
" />
 
 
 
Esegui una ricerca

Informativa privacy

Una risposta mirata al tumore della prostata

Stefania Bortolotti, N. 8/9 agosto/settembre 2013

Nei paesi occidentali è il tumore più diffuso nella popolazione maschile, dove è anche la seconda causa di morte per cancro.

Si tratta principalmente di una patologia dell’anziano: due terzi dei casi si verificano negli uomini al di sopra dei 65 anni. Per questo motivo il tumore alla prostata è più frequente nei paesi industrializzati, nei quali l’aspettativa di vita è più alta. In Italia, secondo la pubblicazione dell'AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medic) e di AIRTUM (Associazione Italiana Registri Tumori) - I numeri del cancro 2012 - si stima che siano diagnosticati oltre 36.000 nuovi casi all'anno: il primo tipo di tumore nell'uomo, pari a circa il 20% del totale dei tumori nella popolazione maschile. Tale numero è destinato a crescere con il progressivo aumento dell'età media della popolazione: AIOM e AIRTUM stimano nel 2020 quasi 44.000 nuovi casi all'anno e oltre 51.000 nel 2030. Sempre nella medesima pubblicazione si stima che siano 216.000 coloro che hanno avuto una diagnosi di questa patologia. «Sebbene sia una patologia molto diffusa - dice Ettore Fumagalli, Presidente di Europa Uomo Italia - si tratta ancora di un argomento tabù per il maschio italiano. Per la nostra cultura latina, "machista", il tumore alla prostata rimane qualcosa che crea imbarazzo e, inevitabilmente isolamento di chi ne soffre, malgrado il fatto che coloro che lo hanno sperimentato o stanno sperimentando sappiano quanto una diagnosi di cancro alla prostata possa segnare l’esistenza. Dovremmo creare, come hanno saputo fare le donne con il tumore al seno, una cultura molto più aperta di questa patologia per prevenire, ma anche per dare supporto a chi ne soffre».
Da oggi c’è un’opzione terapeutica innovativa per i pazienti con tumore prostatico in fase avanzata metastatica. È abiraterone acetato, molecola di Janssen, che si è dimostrata capace di prolungare la vita di questi pazienti, nonché di migliorarne la qualità di vita. Capostipite di una nuova classe di farmaci, abiraterone rappresenta un’importante innovazione nella gestione del tumore in fase avanzata. È infatti il primo farmaco non chemioterapico con azione mirata, in grado di agire direttamente sul processo di autoalimentazione del tumore.
Su abiraterone è stato condotto il più grande studio di fase III sul carcinoma della prostata: sono stati arruolati 1.195 pazienti con carcinoma prostatico avanzato in fase di progressione documentata, già trattati con chemioterapico (docetaxel) e sottoposti a terapia ormonale classica. I dati, pubblicati nel maggio 2011 sul New England Journal of Medicine, e su Lancet Oncology nel settembre 2012 hanno dimostrato che:

  • il trattamento con abiraterone acetato ha prodotto una riduzione di più del 25% del rischio di morte rispetto al gruppo "controllo";
  • il vantaggio di sopravvivenza tra abiraterone e controllo è stato del 40%, con una mediana di sopravvivenza globale rispettivamente di 15,8 mesi nel gruppo con abiraterone e 11,2 mesi in quello "controllo";
  • la superiorità di abiraterone acetato rispetto al gruppo di controllo in termini di sopravvivenza è apparsa costante e omogenea in tutti i gruppi esaminati.

Si tratta di un risultato sorprendente in pazienti in una fase così avanzata della patologia.
Oltre al vantaggio in termini di sopravvivenza e tollerabilità, abiraterone ha mostrato anche un effetto importante per la qualità di vita dei pazienti: è emerso un effetto palliativo del dolore nel 45% dei casi, contro il 28% del gruppo "controllo". Inoltre i pazienti con abiraterone hanno ritardato rispetto al gruppo "controllo" l'impiego di antidolorifici, con una differenza mediana di 8 mesi.
«Abiraterone rappresenta un avanzamento molto importante nella terapia dei pazienti con carcinoma metastatico alla prostata - dice Sergio Bracarda, Direttore della Unità di Oncologia Medica, Ospedale S. Donato di Arezzo - e ha dimostrato un vantaggio importante nell'incremento di sopravvivenza, ma anche di avere un ottimo profilo di tollerabilità. Incremento di sopravvivenza accoppiato a tollerabilità rende abiraterone un farmaco più facilmente applicabile, rispetto a terapie più aggressive, ai pazienti con carcinoma metastatico alla prostata. La tollerabilità rimane una priorità fondamentale in quanto si riferisce a una popolazione spesso fragile per età avanzata o per presenza di patologie concomitanti, a livello cardiaco, renale o epatico».

Ma come agisce esattamente abiraterone?
In questo tipo di tumore gioca un ruolo fondamentale il testosterone, che agisce come fattore di crescita delle cellule tumorali. Infatti, nelle prime fasi della patologia, che possono durare dai due ai dieci anni, il carcinoma prostatico viene trattato con la chirurgia - la rimozione della prostata - con la radioterapia e, dal punto di vista farmacologico con l’ormonoterapia classica, finalizzata a ridurre i livelli di testosterone. La terapia ormonale classica è inizialmente molto efficace, perché riduce i livelli di testosterone circolante. In seguito però le cellule tumorali ricominciano a crescere. E questo avviene quando le cellule "malate" si adattano e reagiscono anche a minime quantità di testosterone in circolo per proseguire nella proliferazione. Nelle fasi più avanzate della patologia, infatti, si passa alla chemioterapia perché il tumore è considerato "resistente" alla terapia ormonale classica. Per spiegare il fenomeno della "resistenza", è stato recentemente riscontrato un ulteriore adattamento delle cellule del carcinoma prostatico in fase avanzata: esse sono in grado di sintetizzare autonomamente il testosterone a partire dal colesterolo, provvedendo da sole ad alimentare la propria crescita e lo sviluppo.

Come bloccare la sintesi del testosterone autoprodotto dal tumore stesso?
La risposta sta in un enzima, il CYP17, elemento chiave della sintesi degli androgeni e, in particolare del testosterone. Questo enzima è particolarmente presente, “iperespresso”, nelle cellule tumorali nello stadio avanzato della malattia, quando non risponde più alla terapia ormonale classica. I risultati di alcuni studi mostrano l’esistenza di una relazione diretta tra i livelli di espressione di CYP17 sia con gli stadi di progressione della malattia, sia con il grado di aggressività. E bloccare il CYP17 è la modalità d’azione di abiraterone acetato. «Abiraterone – spiega Giario Conti primario di Urologia all’Ospedale S. Anna di Como, presidente della Società Italiana di Urologia Oncologica (SIUrO) – è un potente inibitore dell’enzima CYP17 e quindi un farmaco in grado di inibire profondamente la produzione di testosterone e di altri ormoni androgeni agendo a livello del surrene, del testicolo e soprattutto del microambiente tumorale». Abiraterone si somministra per via orale tramite compresse. Il farmaco è stato approvato nel settembre 2011 dall’European Medicines Agency (EMA) per il trattamento del carcinoma prostatico resistente alla terapia ormonale classica in pazienti che hanno già ricevuto un trattamento chemioterapico a base di docetaxel. Nell’aprile 2011 era già stato approvato dalla Food and Drug Administration. Da aprile di quest’anno è disponibile anche in Italia con la medesima indicazione. «Abiraterone – dice Massimo Scaccabarozzi, Amministratore Delegato di Janssen Italia – costituisce un contributo importante per la lotta a uno dei tumori più diffusi. Un esempio di come l’innovazione possa tradursi in benefici concreti per i pazienti. È tuttavia fondamentale che tale innovazione sia realmente accessibile a tutti i pazienti. Auspico quindi che, in quanto farmaco innovativo, sia rapidamente messo a disposizione in tutte le Regioni».

Abiraterone, la “freccia” per colpire il CYP17
Abiraterone acetato è una molecola innovativa, non chemioterapica, che appartiene a una nuova sottoclasse farmacologica: inibitori della biosintesi del testosterone. La molecola agisce attraverso l’inibizione altamente selettiva e specifica del complesso enzimatico CYP17 e così impedisce la produzione di testosterone nei testicoli, nelle ghiandole surrenali e anche nelle cellule tumorali, target fino ad oggi non raggiunto dall’ormonoterapia classica. In questo modo il farmaco blocca la crescita cellulare indotta dal testosterone consentendo la morte programmata delle cellule tumorali.

Il ruolo chiave del testosterone nel cancro della prostata
Gli ormoni sessuali maschili – gli androgeni – svolgono un ruolo essenziale nello sviluppo e nella crescita del cancro della prostata. Il principale androgeno è il testosterone, prodotto circa per il 90% dai testicoli, mentre il restante 10% dal surrene. Nella prostata “sana”, il testosterone agisce come fattore di crescita e impedisce la morte cellulare programmata (apoptosi). In condizioni normali si crea un equilibrio tra proliferazione e morte programmata delle cellule. Mentre in condizioni patologiche questo equilibrio viene meno, causando la progressione tumorale. Pertanto la proliferazione e la sopravvivenza delle cellule tumorali sono interamente guidate dal testosterone, le cui concentrazioni nel sangue e all’interno della massa tumorale diventano fondamentali per lo sviluppo della patologia.

Le cellule tumorali “autoproducono” testosterone
Nelle prime fasi della patologia, che possono durare dai due ai dieci anni, il carcinoma prostatico viene trattato con la chirurgia – la rimozione della prostata – con la radioterapia e, dal punto di vista farmacologico con l’ormonoterapia classica, finalizzata a ridurre i livelli di testosterone, bloccandone la produzione da parte dei testicoli. Il testosterone è infatti il principale responsabile della proliferazione delle cellule “malate”. La terapia ormonale classica è inizialmente molto efficace, perché riduce i livelli di testosterone circolante. In seguito però le cellule tumorali ricominciano a crescere. E questo avviene quando le cellule “malate” si adattano e reagiscono anche a minime quantità di testosterone in circolo per proseguire nella proliferazione. Nelle fasi più avanzate della patologia, infatti, si passa alla chemioterapia perché il tumore è considerato “resistente” alla terapia ormonale classica. Per spiegare il fenomeno della “resistenza”, è stato recentemente riscontrato un ulteriore adattamento delle cellule del carcinoma prostatico in fase avanzata: esse sono in grado di sintetizzare autonomamente il testosterone a partire dal colesterolo, risultando così del tutto svincolato da quello prodotto dai testicoli o dalle ghiandole surrenali, provvedendo così autonomamente ad alimentare la propria crescita e lo sviluppo della massa tumorale. Il ruolo chiave dell’enzima CYP17 nella sintesi del testosterone “autoprodotto”. Un ruolo essenziale nelle reazioni chiave della sintesi degli androgeni e, in particolare del testosterone, è svolto dal complesso enzimatico CYP17. Questo enzima è particolarmente presente, “iperespresso”, nelle cellule tumorali nello stadio avanzato della malattia, quando non risponde più alla terapia ormonale classica. I risultati di alcuni studi mostrano l’esistenza di una relazione diretta tra i livelli di espressione di CYP17 sia con gli stadi di progressione della malattia sia con il grado di aggressività. La produzione autonoma di testosterone consente, quindi, alla neoplasia di rendersi via via completamente indipendente dal testosterone circolante e autosufficiente in termini di stimolo alla crescita e di inibizione della morte cellulare programmata. Questo mette in luce la necessità terapeutica non solo di eliminare il testosterone residuo circolante, ma anche di bloccare la sintesi androgenica interna al tumore.

Nuovi obiettivi terapeutici nel carcinoma “resistente”: il CYP17 come bersaglio
Se si considera l’autoproduzione di testosterone da parte delle cellule tumorali, grazie soprattutto alla massiccia presenza dell’enzima CYP17, si comprende facilmente come il carcinoma prostatico “resistente” riesca a mantenere intorno a sé un ambiente ricco di testosterone, particolarmente favorevole alla sua crescita e alla sua progressione. Ciò determina la necessità di strategie terapeutiche più profonde ed efficaci rispetto a quelle disponibili fino ad oggi. Per ottenere una maggiore efficacia, il trattamento dovrebbe raggiungere i seguenti obiettivi:

  • agire su tutte le sedi di produzione degli androgeni nell’organismo (testicoli e surreni);
  • bloccare la sintesi autonoma di testosterone da parte del tumore. In questo modo è possibile annullare lo stimolo alla crescita delle cellule tumorali e ripristinare il processo di morte cellulare programmata nella massa tumorale. Per raggiungere questo scopo il CYP17 diventa un importante bersaglio.

Come cambia oggi la terapia del carcinoma prostatico e come cambierà domani la patologia dal punto di vista dei pazienti
Intervista a: Cora N. Sternberg, MD, FACP Direttore dell’Unità Operativa di Oncologia Medica Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini, Roma
csternberg@scamilloforlanini.rm.it

Professoressa, come cambiano i dati dello studio registrativo su Abiraterone il modo di affrontare questa patologia?
«A livello globale, lo studio di fase 3 ha coinvolto 1.195 pazienti – affetti da carcinoma prostatico metastatico che avevano fallito la terapia tradizionale ormonale e con progressione della malattia dopo l’impiego di chemioterapia con docetaxel – per valutare abiraterone acetato in combinazione con prednisone. End point primario la sopravvivenza globale, end point secondari il tasso di risposta dei livelli di PSA, il tempo di progressione del PSA, la sopravvivenza libera da progressione radiologica della malattia. Lo studio è stato interrotto prima del previsto, dopo che un’analisi ad interim ha evidenziato un vantaggio significativo del farmaco in termini di sopravvivenza rispetto al placebo. Lo studio ha dimostrato un aumento di sopravvivenza del gruppo trattato con abiraterone rispetto al braccio di controllo di quasi cinque mesi. A favore di abiraterone anche i risultati degli end point secondari. La tollerabilità si è dimostrata molto buona, con effetti collaterali solo di grado lieve. A seguito dello studio, il farmaco è stato approvato nell’aprile 2011 dalla Food and Drug Administration (FDA) e a settembre 2011 dall’European Medicines Agency (EMA). Questo ha aperto sicuramente nuove prospettive nel trattamento della patologia. Abbiamo a disposizione una nuova terapia con un meccanismo d’azione nuovo. Oggi, dopo che il paziente ha fatto una terapia a base di docetaxel, abbiamo una possibilità che consente non solo di aumentare la sopravvivenza, ma anche di avere un buon profilo di tollerabilità. Inoltre il farmaco ha presentato degli interessanti risultati sul dolore e sugli eventi scheletrici. Il gruppo in trattamento con abiraterone ha mostrato di beneficiare di un effetto palliativo sul dolore e di avere necessità di ricorrere alla terapia palliativa più tardi rispetto al gruppo di controllo. Sono dati importanti perché in questo modo si può indirizzare il paziente verso un percorso che preserva per quanto possibile la sua qualità di vita».

Il San Camillo è stato coinvolto direttamente nello studio registrativo di abiraterone?
«L’ospedale San Camillo è stato, tra i Centri italiani, quello che ha arruolato il maggior numero di pazienti. È anche stato ispezionato dalla Food and Drug Administration».

Può parlarci del futuro della cura di questa patologia?
«In parte il futuro è già arrivato. L’EMA e l’FDA hanno già approvato l’indicazione dell’abiraterone anche nei pazienti con carcinoma prostatico prima della chemioterapia. Noi abbiamo partecipato a un altro studio (un secondo studio) registrativo pre-chemio che ha mostrato un tempo alla progressione radiologica ridotta del 57% nei pazienti e un trend verso un aumento della sopravvivenza. Avere a disposizione farmaci innovativi è dunque un’arma in più che assicura ulteriori possibilità terapeutiche, dando una nuova speranza ai malati».

La patologia dal punto di vista dei pazienti
Intervista a: Ettore Fumagalli, Presidente Europa Uomo Italia Onlus
europauomo.italy@virgilio.it

Presidente, qual è il vissuto della patologia da parte del paziente?
«Nella mia esperienza ho potuto vedere quanto sia difficile parlare di questo tema. Dieci anni fa quando sono stato operato alla prostata, mi sono reso conto di quanti mi chiedessero informazioni, a bassa voce, quasi si vergognassero. E le cose non sono cambiate. Il mondo maschile parla molto poco volentieri di questa patologia, non siamo capaci di affrontare il problema come fanno le donne con il tumore al seno o con quello all’utero. Per la nostra cultura latina, un po’ “machista”, il tumore alla prostata rimane qualcosa che crea imbarazzo e, inevitabilmente, isolamento di chi ne soffre. Quando ne parliamo la gente tende a svicolare, a fare gesti scaramantici. Negli altri paesi europei non è cosi. Per questo come associazione ci siamo dati la missione di fare cultura sulla patologia per combattere l’isolamento di chi riceve una diagnosi di questo tumore. Ci rivolgiamo a tutti coloro che hanno sperimentato o stanno sperimentando quanto una diagnosi di cancro alla prostata possa segnare l’esistenza».

E come cambia il vissuto nelle fasi più avanzate della patologia?
«Nella fase più difficile della patologia ci terrei a sottolineare il forte impatto psicologico, spesso connotata da depressione. E anche qui la situazione di isolamento spesso si acuisce. In questo caso è fondamentale avere una squadra di medici che affrontino il problema, valutando anche elementi come il sostegno psicologico».

A suo giudizio quanto è importante la multidisciplinarietà nel trattare il tumore?
«È fondamentale. Il paziente con una diagnosi o con un sospetto di tumore alla prostata dovrebbe essere indirizzato a unità multidisciplinari composte da urologo, oncologo, radioterapista, altri specialisti, se soffre anche di patologie concomitanti. E anche, come abbiamo visto, lo psicologo per avere supporto. Si tratta di quello che già esiste nelle breast cancer unit, dove il tumore al seno viene affrontato in modo globale, dalla chirurgia alla terapia farmacologica. E dove il paziente può essere informato e coinvolto nelle decisioni, ed essere parte attiva nella terapia. L’obiettivo è quello di costituire le prostate cancer unit. In Italia ci sono alcuni esempi positivi, ma c’è ancora molto da fare per trasformare i casi d’eccellenza in standard di cura».

Presidente, cosa si attende dalla ricerca farmacologica?
«Non sono un medico, ma come rappresentante di un’associazione mi attendo farmaci che siano in grado di sconfiggere il cancro alla prostata, magari con terapie personalizzate per il singolo paziente. Ma, in attesa di questi sviluppi, credo che sia importante avere a disposizione più alternative terapeutiche possibili, in modo tale che si possa trovare la miglior soluzione per gli specifici bisogni di ciascun paziente. Inoltre mi attendo nuovi farmaci che non solo allunghino la vita, ma la rendano il più possibile vivibile. Quindi meno effetti collaterali possibili, al fine di rispettare la dignità della persona».

Il ruolo dell’urologo e la centralità della multidisciplinarietà
Intervista a: Giario Conti, Primario di Urologia all’Ospedale S. Anna di Como, Presidente della Società italiana di urologia oncologica (SIUrO)
giario.conti@hsacomo.org

Dottore, cosa significa “cronicizzazione” del tumore alla prostata?
«Si è oggi in grado, grazie a queste nuove armi terapeutiche, come abiraterone, di cronicizzare il carcinoma della prostata, nel senso che la terapia non sarà solo palliativa, ma anche in grado di modificare significativamente la quantità e la qualità di vita dei malati. Soprattutto nel caso dei pazienti anziani, la cronicizzazione della neoplasia fa sì che alla fine il paziente muoia per altre cause, ma non per il tumore alla prostata. Si tratta di una lunga strada, che ancora non è stata percorsa tutta, ma sulla quale sono stati compiuti i primi importanti passi. Un meccanismo virtuoso avviato nel 2004, che prosegue ancora oggi».

Come agisce abiraterone?
«Il tumore prostatico sottoposto a deprivazione androgenica mette in atto complessi meccanismi di adattamento che lo rendono in grado di sopravvivere e di espandersi anche in presenza di livelli esigui di testosterone. Non solo: è stato recentemente scoperto che, nella fase avanzata di malattia, il tumore stesso riesce a sintetizzare autonomamente il testosterone, autoalimentando la propria crescita. In questa fase infatti, le cellule tumorali, iniziano a produrre gli enzimi (in particolare il CYP17), necessari per la sintesi di testosterone. Abiraterone è un potente inibitore dell’enzima CYP17 e quindi un farmaco in grado di inibire profondamente la produzione di testosterone e di altri ormoni androgeni agendo a livello del surrene, del testicolo e soprattutto del microambiente tumorale. In questo modo blocca non solo la produzione di testosterone prodotto dai testicoli, come la terapia ormonale classica, ma anche quello prodotto dal surrene. Inoltre, in modo particolare, agisce bloccando il testosterone autoprodotto dalle cellule tumorali stesse, fattore chiave nella proliferazione del tumore. Nei pazienti con carcinoma alla prostata sottoposti a trattamento con abiraterone, i livelli di testosterone circolanti valutati con le metodiche di dosaggio routinario risultano molto spesso indosabili. A livello surrenalico la produzione di androgeni è concatenata alla produzione di cortisolo e agli ormoni responsabili dell’equilibrio idro-salino. Nel surrene, abiraterone, oltre a inibire la produzione di androgeni, riduce i livelli di cortisolo; l’organismo, per compensare il deficit di cortisolo, stimola il surrene a produrre ormoni modulanti l’equilibrio idro-salino. Ciò può causare una ritenzione di liquidi e di sodio, che favoriscono l’innalzamento della pressione arteriosa. Questi disturbi possono, tuttavia, essere facilmente controllati e prevenuti somministrando al paziente basse dosi di cortisolo o di farmaci analoghi. Per questo motivo abiraterone viene somministrato insieme a prednisone, rendendo ottimale la tollerabilità del trattamento».

Dottor Conti, urologo e oncologo sono le due figure centrali della terapia del carcinoma alla prostata. Cosa implica concretamente?
«Il ruolo dell’urologo deve essere sempre più multidisciplinare, in un contesto di competenze che devono confrontarsi e raccordarsi tra loro al fine di rendere un migliore e più tempestivo servizio al paziente. Cruciale è in questo senso la presenza del team multidisciplinare, che include urologo, radioterapista, oncologo, palliativista. Anche la Società Italiana di Urologia Oncologica (SIUrO) ha abbracciato tale filosofia di lavoro nella convinzione che la sinergia tra i vari professionisti sia la chiave per garantire ai malati i migliori percorsi diagnostici-terapeutici in tutte le fasi della malattia. SIUrO si sta adoperando affinché questi concetti non restino solo proclami teorici ma si traducano in buone prassi. Ferme restando le differenze caratteristiche dei singoli ospedali, ciò che è importante è parlare un linguaggio comune, definendo a priori un metodo di lavoro condiviso».

Abiterone: una nuova soluzione per il carcinoma prostatico
Intervista a: Sergio Bracarda, Direttore della Unità di Oncologia Medica Ospedale S. Donato di Arezzo
sergio.bracarda@usl8.toscana.it

Dottor Bracarda, come è cambiato il paziente che oggi si trova a fare una prima diagnosi di tumore alla prostata?
«Certamente nel corso degli anni la tipologia di paziente è cambiata molto, perché anni fa molti arrivavano con un tumore già in fase avanzata. Questo tipo di tumore non presenta sintomi all’inizio e quando li manifesta, purtroppo, ci troviamo già di fronte a casi di carcinoma avanzato. Oggi la stragrande maggioranza di persone con tumore alla prostata sono invece ai primi stadi di malattia».

Quali sono le caratteristiche dei pazienti con tumore alla prostata in fase avanzata?
«Innanzitutto sono anziani, hanno altre patologie rilevanti e dunque è molto importante avere a disposizione farmaci per il trattamento con un buon profilo di tollerabilità».

Come vede il ruolo di abiraterone in questa patologia?
«Abiraterone rappresenta un avanzamento molto importante nella terapia dei pazienti con carcinoma metastatico alla prostata. Ha dimostrato un vantaggio importante nell’incremento di sopravvivenza, ma anche di avere un ottimo profilo di tollerabilità. Incremento di sopravvivenza accoppiato a tollerabilità rende abiraterone un farmaco più facilmente applicabile, rispetto a terapie più aggressive, per i pazienti con carcinoma metastatico alla prostata. La tollerabilità rimane un fattore assolutamente prioritario in quanto si riferisce a una popolazione spesso fragile per età avanzata o per presenza di patologie concomitanti, a livello cardiaco, renale o epatico».

Dottore, per il farmaco adesso è stata definita la rimborsabilità a livello nazionale, ma esiste il rischio di ritardi nel recepimento a livello regionale.
«Auspico che, a seguito all’approvazione da parte dell’AIFA, la molecola possa essere rapidamente disponibile a livello regionale, senza discriminazioni nell’accesso. In Europa il farmaco ha già ottenuto indicazione in una fase più precoce, prima della chemioterapia, in Italia non ancora disponibile. Il nostro centro ha partecipato attivamente a questo secondo studio registrativo, che ha ottenuto risultati promettenti. Sarà fondamentale che il prescrittore utilizzi il farmaco in modo appropriato, attenendosi alle indicazioni della molecola e alle linee guida nazionali e internazionali: per raggiungere questo obiettivo, è cruciale la collaborazione multidisciplinare tra oncologo e urologo, che consentirà di impiegare al meglio questa nuova ed efficace arma terapeutica».

Torna ai risultati della ricerca