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I nanofarmaci

Cristina Mazzantini, N. 6/7 giugno/luglio 2013

Vi sono finalmente buone notizie per molte persone colpite da neoplasie che si devono sottoporre alla chemioterapia. Da poco tempo, infatti, è possibile superare la barriera del cancro, finora impermeabile ai farmaci chemioterapici tradizionali. Si tratta di nanoparticelle, che funzionano come droni, sono in grado di attraversare la massa densa che circonda il tumore e di trasportare il medicinale in maniera selettiva nelle cellule malate, in concentrazioni maggiori ( +33% ) e senza danneggiare i tessuti sani. Uno di questi farmaci, il Nab paclitaxel (paclitaxel legato all’albumina in nanoparticelle) è già utilizzato con successo nel tumore del seno, che ogni anno solo nel nostro Paese fa registrare 46mila nuovi casi. La nanomedicina rappresenta una vera e propria rivoluzione per l’oncologia e apre la strada alla chemioterapia target, la nuova frontiera per sconfiggere il cancro. Per discutere delle prospettive offerte dall’innovazione tecnologica si è svolto recentemente a Roma un convegno nazionale patrocinato da AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) e SIFO (Società Italiana di Farmacia Ospedaliera e dei Servizi Farmaceutici delle Aziende Sanitarie), in cui è stata prevista la lezione magistrale del professor Mauro Ferrari, presidente del Methodist Hospital Research Institute di Houston, il più importante ricercatore al mondo nel campo della nanomedicina. «Un nanometro – ha spiegato il professor Ferrari – equivale a un miliardesimo di metro. In queste dimensioni le proprietà fisiche della materia e il modo in cui si esprimono le leggi della natura cambiano. Le nanotech modificano radicalmente i principi della lotta al cancro perché aprono nuovi orizzonti nella personalizzazione della terapia». Una particella di circa 100 nanometri è in grado entrare nella cellula (che ha un diametro compreso fra i 10.000 ai 20.000 nanometri) e di interagire con il DNA e con le proteine. «Oggi, per la prima volta, siamo di fronte a un sensibile passo in avanti nel trattamento del tumore del pancreas», ha sottolineato il professor Stefano Cascinu, presidente AIOM. « Ogni anno in Italia si registrano 11.500 nuove diagnosi. Si tratta di una delle neoplasie a prognosi più infausta: solo il 5% degli uomini e il 6% delle donne risultano vivi a 5 anni, senza sensibili scostamenti nell’ultimo ventennio. In uno studio di fase III Nab paclitaxel con gemcitabina ha infatti evidenziato risultati clinici significativi, con un aumento del 59% nella sopravvivenza a un anno e un tasso raddoppiato a due anni. In questa formulazione vengono sfruttate le potenzialità dell’albumina, una proteina che funziona come un veicolo naturale in grado di trasportare più rapidamente il farmaco attraverso i vasi sanguigni. In queste dimensioni infatti il medicinale è 100 volte più piccolo rispetto a un globulo rosso. L’albumina si lega poi a una proteina, SPARC (Secreted Protein Acidic Rich in Cysteine), presente nelle cellule neoplastiche del pancreas consentendo a maggiori quantità di principio attivo di penetrare nel tumore». In questo modo è possibile ottenere livelli di paclitaxel libero nell’organismo 10 volte superiori rispetto a quelli rilasciati dalla formulazione tradizionale e raggiungere concentrazioni più alte del 33% all’interno delle cellule tumorali. Senza provocare reazioni allergiche perché non vengono utilizzati solventi chimici. I principi della nanotecnologia si applicano anche nella diagnosi radiologica. Uno degli obiettivi è sviluppare traccianti radioattivi legati ad altre sostanze che mirino a punti specifici del tumore. In questo modo sarà possibile disporre di una definizione diagnostica decisamente migliore di quella offerta dai normali mezzi di contrasto. Il Methodist Hospital Research Institute (TMHRI) di Houston, presieduto dal professor Ferrari, è il più importante Centro al mondo di ricerca nelle nanotecnologie. È un ente indipendente all’interno di un sistema ospedaliero (Methodist Hospital System). Al TMHRI lavorano 1.200 dipendenti e sono in corso 700 clinical trial (protocolli sperimentali). «La nanotech – ha puntualizzato ancora il professor Ferrari – unisce molteplici settori scientifici: sulla scala nanometrica le differenze tra discipline svaniscono. I nanofarmaci infatti non possono che essere il frutto della collaborazione tra clinici, oncologi molecolari, ingegneri, chimici, farmacologi e matematici». «Un nuovo trattamento è realmente innovativo quando offre al paziente benefici maggiori rispetto alle opzioni precedentemente disponibili, in termini di efficacia, sicurezza e convenienza», è intervenuta poi la dottoressa Laura Fabrizio, Presidente di SIFO, chiarendo come: «Il farmacista ospedaliero è coinvolto a pieno titolo nell’introduzione delle nuove tecnologie, come ad esempio le nanotecnologie, ed il suo contributo nell’ambito dell’innovazione è richiesto in tutte le fasi del percorso, dalla valutazione, alla decisione fino al monitoraggio degli esiti. Innovare vuol dire esplorare percorsi, verificare programmi ed esperienze che, a livello centrale o periferico, tentino di dare risposte praticabili, rispettando i principi di equità e sostenibilità che presiedono il sistema sanitario pubblico». Abbracciando la tesi della dottoressa Fabrizio ha concluso il professor Cascinu come: «La sfida della sostenibilità per il nostro sistema sanitario, si può vincere garantendo l’accesso a trattamenti con un ottimo rapporto costo/beneficio. La parola d’ordine deve essere appropriatezza».

La nanotecnologia e la chemioterapia
Studi recenti hanno dimostrato come la nanotecnologia migliori l’azione selettiva della chemioterapia.
Infatti un agente terapeutico incapsulato all’interno di un guscio di albumina può raggiungere più facilmente la sede del tumore perché migliora:

  1. la capacità di uscire dal flusso sanguigno;
  2. la sua capacità di raggiungere la sede del tumore;
  3. la sua captazione nelle cellule tumorali.

Le particelle di albumina entrano naturalmente nel flusso sanguigno, a differenza dei chemioterapici tradizionali che devono essere disciolti in solventi, che possono provocare gravi reazioni allergiche. Inoltre l’albumina nel flusso sanguigno si lega ai recettori sulle pareti dei vasi sanguigni. In tal modo il complesso albumina-farmaco può attraversare facilmente le pareti dei vasi per raggiungere il tumore. In questo modo è possibile ottenere concentrazioni di paclitaxel libero nell’organismo 10 volte superiori a quelle rilasciate dalla formulazione tradizionale del farmaco e di raggiunge concentrazioni superiori del 33% all’interno delle cellule tumorali. Inoltre, i pazienti trattati con la nanotecnologia hanno una maggiore esposizione a paclitaxel rispetto a quelli che ricevono paclitaxel tradizionale. Molti tipi di tumore sono racchiusi nel cosiddetto stroma, una massa densa, poco vascolarizzata, che circonda le cellule tumorali. Secondo alcuni ricercatori, uno stroma insolitamente resistente, come spesso si riscontra nel cancro del pancreas, forma una barriera pressoché impenetrabile ai chemioterapici. Nab paclitaxel può penetrare nello stroma demolendo di conseguenza questa robusta barriera, permettendo alla chemioterapia e a eventuali altri farmaci somministrati in concomitanza di raggiungere le cellule tumorali. Nab paclitaxel è attualmente in varie fasi di studio per il trattamento dei seguenti tipi di tumore: carcinoma pancreatico, melanoma, carcinoma polmonare non a piccole cellule, tumore della vescica, carcinoma ovarico e carcinoma mammario (applicazioni più estese).

I numeri del tumore al pancreas
Nel 2012 si sono registrati quasi 11.500 nuovi casi, circa il 3% di tutti i nuovi tumori. Solo nelle donne oltre i 75 anni il carcinoma pancreatico è compreso tra i cinque tumori più frequenti (V posto, 5% dei casi). L’andamento temporale dell’incidenza di questa neoplasia è in crescita sia nei maschi che nelle femmine (rispettivamente +1% e +1,3% / anno). Il carcinoma pancreatico, con il 7% dei decessi, entra tra le prime 5 cause di morte per tumore soltanto nel sesso femminile, ma nelle età centrali della vita occupa il quarto posto tra i maschi ( 7% ) e le femmine ( 7% ; in queste ultime anche nelle età più avanzate). Si tratta di una delle neoplasie a prognosi più infausta: solo il 5% degli uomini e il 6% delle donne risultano vivi a 5 anni, senza sensibili scostamenti negli ultimi 20 anni. Di conseguenza la speranza di vita nei sopravviventi si allunga sensibilmente man mano che la data di diagnosi si allontana nel tempo: la probabilità di sopravvivere ulteriori 5 anni passa infatti al 22% per i pazienti vivi a un anno dalla diagnosi e al 65% e 80% rispettivamente a 3 e 5 anni dalla diagnosi. Il relativamente ristretto numero di persone affette da questa patologia (9.636, pari allo 0,4% di tutti i pazienti oncologici, equamente distribuiti tra uomini e donne), è direttamente collegabile all’aggressività e alla conseguente breve sopravvivenza di questo tipo di tumore.

Prevenzione tumore al seno
Per una buona prevenzione alle malattie, nel caso specifico quelle tumorali e in particolare il cancro al seno, molti gli studi internazionali confermano l’importanza di seguire un’alimentazione sana e corretta. E soprattutto di tenere sotto controllo la bilancia: la correlazione tra obesità e incidenza del cancro del seno è infatti dimostrata, soprattutto dopo la fine dell’età fertile. Diverse ricerche hanno rivelato che questo tipo di neoplasia è maggiormente diffuso presso le popolazioni che seguono una dieta ricca di grassi, mentre gli alimenti tipici della dieta mediterranea (olio d’oliva, pesce azzurro, frutta, verdura, cereali) hanno un’efficacia preventiva. L’attività fisica può ostacolare la formazione del tumore. Le donne che svolgono regolarmente sport presentano una riduzione del rischio di ammalarsi di circa il 15-20%. Questi effetti sono più evidenti in post-menopausa, ma praticare sport fin dall’adolescenza è in grado di diminuire l’incidenza di tumori che poi si svilupperebbero al termine dell’età fertile. Le mamme sono più protette: sembra incidere favorevolmente sia il numero di figli sia l’età della gravidanza (prima avviene, più basso è il rischio). Il cancro del seno è meno frequente nelle donne che hanno avuto il primo bambino prima dei 21 anni, mentre si considera un fattore di rischio partorire per la prima volta oltrepassati i 30 anni. L’allattamento al seno esercita inoltre un ulteriore effetto protettivo, perché consente alla cellula mammaria di maturare e completarsi, e la rende quindi più resistente.

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