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Uranio impoverito: e la storia continua...

Cristina Mazzantini, N. 5 maggio 2013

A distanza di anni si torna a scrivere di uranio impoverito. Stavolta è la politica a richiederlo. Si tratta di una storia “maledetta” a cui non si riesce ancora a mettere la parola fine. Nel 2002 la Commissione istituita dal Ministero della Difesa e presieduta dal professor Franco Mandelli (celebre ematologo dell’Università di Roma), arrivò alle conclusioni che, nonostante le tecniche raffinate adoperate, nei soggetti esaminati non si era trovato uranio impoverito in dosi superiori alla soglia prefissata (ovvero nociva per la salute). Tali risultati allora suscitarono una serie di polemiche. Tra gli oppositori più agguerriti c’era l’Associazione Nazionale Assistenza Vittime Arruolate nelle Forze Armate e Famiglie dei Caduti (presieduta dal dott. Falco Accame, ex presidente della commissione Difesa della Camera). Oggi a oltre dieci anni di distanza la storia tende a ripetersi. Anche questa volta i politici non si smentiscono. Il 9 gennaio del 2013 l’ennesima Commissione al Senato sui casi di morte e di gravi malattie in relazione all’esposizione all’uranio impoverito e ad altre sostanze tossiche è arrivata a delle conclusioni che lasciano a dir poco perplessi. Il risultato più eclatante: “l’uranio impoverito può essere definito più come cofattore e non come elemento essenziale nello sviluppo e insorgenza di neoplasie ematologiche”. Le polemiche non si sono fatte attendere. Nessuna contaminazione da uranio impoverito e nessuna certezza del rapporto di causa-effetto con le malattie sviluppate dai militari, ma allo stesso tempo anche l’impossibilità di escludere che “una concomitante e interagente azione di fattori potenzialmente nocivi possa essere alla base delle patologie e dei decessi osservati”. È questa una delle principali conclusioni che emerge dalla relazione finale della Commissione d’inchiesta del Senato sull’esposizione a possibili fattori patogeni, con particolare riferimento all’uso dell’uranio impoverito. Un verdetto cui la Commissione, guidata da Rosario Costa (Pdl), è giunta dopo aver ascoltato vari esperti, nonché il ministro della Difesa Di Paola, che ha assicurato che nei poligoni di tiro italiani non è mai stato impiegato uranio impoverito. L’attività della Commissione in questa legislatura si è però concentrata anche su altri problemi, quale quello dei poligoni di tiro e delle vaccinazioni, anche perché la maggior parte dei militari che si è ammalata non è mai andata in missione all’estero. Questi sono alcuni dati: in base alle cifre comunicate dall’Osservatorio Epidemiologico della Difesa, i casi di malattia e decessi notificati dalle singole forze armate relativi a patologie neoplastiche nel personale militare dal 1991 al 21.02.2012 sono stati 3.761, di cui 3.063 riguardano militari mai andati in missione. Dalle indagini della Commissione non è risultato che siano state usati munizioni con uranio impoverito nei poligoni di tiro. L’unico indizio in senso contrario è stato rilevato da Massimo Zucchetti, professore presso il Dipartimento energia del Politecnico di Torino, a Salto di Quirra in Sardegna nelle ossa di un agnello nato malforme, ma “non appare sufficiente a documentare la presenza e l’uso di armamenti siffatti, e dovrebbe essere seguito da ulteriori ricerche. Le analisi condotte sulle salme di diciotto pastori deceduti per patologie tumorali non hanno fornito alcun riscontro circa la presenza di uranio impoverito”. La tossicità chimica e radiologica dell’uranio impoverito non è stata messa in discussione, mentre è oggetto di dibattito la valutazione dell’eventuale rischio derivante da un’esposizione limitata nel tempo e al di sotto della soglia di dose oltre la quale si determina un danno alla salute. Le particelle di uranio impoverito emettono radiazioni poco penetranti e possono essere dannose per la salute soprattutto se inalate o ingerite con l’acqua e con gli alimenti più che attraverso un’esposizione esterna, cutanea. Il presidente della Lilt, Francesco Schittulli, ha parlato di “un potenziale cancerogeno nell’uranio impoverito”, ma poiché il cancro e anche i tumori emolinfopoietici sono patologie ambientali su base genetica, “l’uranio impoverito può essere definito più come cofattore e non come elemento essenziale nello sviluppo e insorgenza di neoplasie ematologiche, e si raccomanda la bonifica e il monitoraggio delle zone di impatto di proiettili contenenti uranio impoverito e delle persone esposte, militari o civili”. Evandro Lodi Rizzini, consulente della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Lanusei nell’ambito dell’inchiesta giudiziaria sull’area di Salto di Quirra, ha effettuato l’analisi delle salme di alcuni pastori deceduti per patologie tumorali, rilevando tracce di torio – sostanza radioattiva – nel territorio e nelle ossa delle salme dei pastori. Questo elemento ha una catena di decadimento più veloce dell’uranio, può essere inalato o ingerito e in caso di inalazione la sua pericolosità è notevolmente superiore a quella che può derivare in caso di ingestione. La consulente della commissione Antonietta Gatti ha sviluppato dal 2002 una metodologia d’indagine ultramicroscopica per identificare nanoparticelle nei tessuti biologici umani con cui ha svolto un’indagine sui tessuti patologici di 200 militari reduci dai Balcani, Iraq e Afghanistan. È così emerso che non è mai stata trovata alcuna traccia di uranio impoverito, mentre in quasi tutti i tessuti esaminati sono state identificate polveri inorganiche di dimensioni nanometriche fino a 10 nm, con composizioni alcune volte molto particolari, infinitamente più piccole del PM10, in grado di superare le barriere naturali nei polmoni, e penetrare all’interno dell’organismo, insediandosi in diversi organi come fegato, reni, milza, cervello. La relazione ha preso in causa i vaccini. Il punto di partenza è stato aver rilevato in tutti i militari un picco nel numero di quelli colpiti da linfoma di Hodgkin tra il 1999 e 2002, accreditando così l’idea che diversi fattori di rischio ambientale potessero determinare manifestazioni cliniche in soggetti che si trovavano in condizioni, anche transitorie, di maggiore vulnerabilità (tra cui la sottoposizione a vaccinazioni multiple e in tempi ravvicinati, ove associata a condizioni fisiche non ottimali o preesistenti). La Commissione non ha messo in discussione l’efficacia dei vaccini in quanto tali, ma l’applicazione di regole e protocolli per la somministrazione dei vaccini. E per quanto parziali e numericamente limitati, gli elementi acquisiti dalla Commissione non appaiono rassicuranti. I problemi emersi sono sedute vaccinali fatte su centinaia di militari, difficilmente compatibili con un’accurata gestione amministrativa e sanitaria di ogni singolo atto vaccinale; assente o carente annotazione o sottovalutazione nella documentazione sullo stato immunitario dei militari in rapporto a vaccinazioni fatte in età infantile; carenza nella valutazione anamnestica specifica prevaccinale; mancata evidenza delle modalità di acquisizione del consenso informato; somministrazioni plurime del medesimo vaccino anche in difformità delle più accreditate modalità di somministrazione; carenza, assenza, o incomprensibilità delle informazioni e registrazioni contenuti della documentazione vaccinale individuale. Alla luce di queste considerazioni la Commissione considera indispensabile assumere il principio di precauzione. Debbono quindi essere evitate e inibite quelle attività che comportino il verificarsi di situazioni di rischio chimico, fisico o biologico non controllabile con misure di “contenimento” o minimizzazione “alla fonte” o rapidamente risanate per quanto riguarda l’impatto ambientale, le implicazioni sulla catena alimentare, gli effetti di esposizione sull’uomo anche con l’impiego di mezzi di protezione individuale. Ogni attività di somministrazione di farmaci, vaccini, antidoti e intervento medico-chirurgico suscettibile di determinare effetti iatrogeni va effettuata tenendo conto della particolare situazione individuale, previa puntuale anamnesi, acquisizione di consenso informato e rispetto dei protocolli e dei calendari previsti. E infine invita ad adottare norme di legge che includano le erronee modalità di vaccinazione tra i fattori di possibile rischio per la salute del personale militare, stabilendone l’indennizzabilità nel caso dell’insorgere di gravi patologie invalidanti o in caso di decesso.

Cos’è l’uranio impoverito
È bene ricordare che l’uranio impoverito (isotopo 238) è un prodotto di scarto del processo di arricchimento dell’uranio naturale utilizzato come combustibile nucleare o per le armi atomiche (uranio 235). In natura si trova circa un atomo di 235 ogni 140 atomi di 238. Le bombe nucleari, che utilizzano uranio 235 con una concentrazione superiore al 70%, o le centrali nucleari, che “bruciano” uranio 235 in concentrazione di almeno il 3%, hanno richiesto la separazione dell’isotopo 235 dall’isotopo 238 con complicati processi alla fine dei quali si ha una massa di “uranio arricchito” e uno scarto, che non serve a nulla, di “uranio impoverito”.

Gli usi
L’alta densità dell’uranio impoverito e il suo basso costo ne determinano l’impiego in campo civile soprattutto come materiale per la schermatura dalle radiazioni e come contrappeso in applicazioni aerospaziali. In campo militare e nelle munizioni anticarro e nelle corazzature di certi sistemi d’arma. Viene impiegato nella fabbricazione dei proiettili essenzialmente per il suo peso (una volta e mezzo più pesante del piombo, oltre due volte più pesante dell’acciaio) e perché “piroforico”, si infiamma cioè spontaneamente se finemente suddiviso. Si presta inoltre a formare leghe con altri metalli. È inoltre facile da reperire a basso costo e in grandi quantità. Il pulviscolo del proiettile a uranio impoverito, dopo l’esplosione, si sparge sul terreno, determinando un innalzamento del livello di attività. Se ingerito o respirato, secondo numerose ricerche, può provocare tumori, leucemie e malformazioni del feto. La polvere e i penetratori di uranio impoverito depositati nel suolo possono anche contaminare il cibo e le falde acquifere.

Alcuni dati
Ad esempio in Bosnia sono stati sparati 10.800 proiettili e in Kosovo oltre 31.000: fuoco amico del tutto dimenticato. L’ammiraglio ha poi rimarcato come i principali pericoli non derivino dal materiale allo stato solido. Secondo una costante letteratura scientifica, le principali complicanze sono connesse all’inalazione dell’aerosol che si sviluppò negli attimi successivi la detonazione del proiettile. Per il presidente dell’Anavafaf, le lacune della relazione non sono finite: manca il conteggio dei casi di malformazione alla nascita, e la valutazione sull’altrettanto pericoloso torio usato dai missili Milan impiegati in Italia (nei poligoni) e all’estero. «Nulla è stato realizzato per le bonifiche dei poligoni italiani nulla è stato realizzato di concreto per le analisi epidemiologiche in Sardegna, e nulla è stato fatto circa i gravi errori contenuti nelle normative che hanno portato all’erronea esclusione dai risarcimenti », sottolinea Accame che ricorda inoltre come nonostante le raccomandazioni della scorsa Commissione circa la necessità di adottare il nesso probabilistico e non quello deterministico nel legame tra tumori e attività svolta dal personale. Un’elusione che ha permesso alla Difesa di continuare ad applicare una discrezionalità amministrativa eccessiva. Casi simili sono stati trattati in maniera radicalmente diverse dalle commissioni chiamate a riconoscere l’esistenza della causa di servizio.

Il problema vaccinazioni
Un rilevante capitolo dell’inchiesta riguarda il problema delle vaccinazioni a cui sono sottoposti i nostri militari. «Una novità assoluta», spiega Cinzia Fontana. «Dai documenti analizzati nel corso dell’inchiesta, la commissione può desumere la mancata osservanza dei protocolli vaccinali che la stessa Difesa si è data». Non è ovviamente in dubbio l’efficacia della profilassi vaccinale. Secondo la commissione, si deve vigilare da parte delle autorità competenti affinché in futuro si evitino errori, che si sono verificati, nella somministrazione, eccessi di dosaggio, somministrazioni multiple in tempi ravvicinati quando non necessari, richiami di vaccinazioni contro malattie per le quali il soggetto è già immunizzato, e si assicuri l’adempimento degli obblighi per quanto concerne l’anamnesi vaccinale e l’acquisizione del consenso informato. E poi ci sono i poligoni di tiro. Come già previsto nella relazione intermedia approvata lo scorso maggio, la commissione ribadisce l’esigenza di procedere celermente alle bonifiche dei siti inquinati. L’ultima manovra finanziaria prevede una spesa di 75 milioni di euro. La commissione, spiega il senatore Scanu, propone un investimento di 300 milioni. Obiettivo: la chiusura dei poligoni sardi di Capo Teulada e Capo Frasca e la riconversione di Salto di Quirra.

Non tutti d’accordo con la commissione del Senato
Sull’uranio impoverito restano ancora molti dubbi. «La commissione – si legge – non ha acquisito alcun elemento circa la presenza di tracce di uranio impoverito nelle aree di poligoni di tiro». Questo non vuol dire che non ve ne sia. «Non si può confermare una sua effettiva, inoppugnabile presenza» racconta il Pd Gian Piero Scanu, membro della commissione. «Ma in futuro non è detto che sia così». Mistero. Negli ultimi anni la commissione ha ascoltato diversi esperti. «Numerose audizioni che hanno fornito diverse interpretazioni, talvolta persino contrastanti tra loro», continua Scanu. Non è tutto. «La commissione – si legge ancora – nel prendere atto delle caratteristiche di tossicità chimica e radiologica dell’uranio impoverito ritiene che si debba confermare quanto già verificato dalle precedenti commissioni nelle passate legislature, circa l’impossibilità di asserire o escludere con certezza la sussistenza di un nesso causale tra l’esposizione all’uranio impoverito e l’insorgere di patologie tumorali». La vicenda non è così semplice. Almeno stando alle conclusioni raggiunte dall’organismo parlamentare. Piuttosto si deve «guardare al complesso delle realtà cui le Forze Armate operano nei teatri esteri e all’interno» prosegue il documento. «Diventa necessario adottare un principio di multifattorialità causale che, nella elaborazione e nell’implementazione della legislazione in materia di indennizzi, deve comportare l’adozione del principio di probabilità logica, in tutti i casi nei quali dall’esame dei contesti ambientali e operativi si possa desumere una concomitanza di fattori potenzialmente patogeni che porti a un alto grado di credibilità razionale».

Posizione dell’ammiraglio Falco Accame
L’ammiraglio Falco Accame è uno dei più attivi sul fronte dell’uranio impoverito. La sua associazione fornisce da anni un aiuto concreto ai militari malati ed ai familiari delle vittime di patologie in grado di essere connesse con l’impiego di munizionamento realizzato con materiale radioattivo. Il suo parere sulla controversa relazione finale licenziata dalla Commissione d’inchiesta del Senato è uno dei più autorevoli. «Dopo due anni risultati pressoché zero, si presentano praticamente immutati tutti gli stessi problemi che erano emersi nella precedente Commissione d’inchiesta», ha dichiarato l’ex parlamentare socialista. «Nella relazione – spiega l’alto ufficiale – si afferma che l’uranio impoverito non è stato impiegato né stoccato in Italia, ma a Livorno, Camp Darby e Vicenza sono state stoccate migliaia di armi all’uranio». Vi sono stati 3.761 casi di militari ammalati di tumore e di altre gravi malattie nelle missioni all’estero dal 1981, «ma sono stati dimenticati i casi dei civili e dei militari in Italia nei poligoni. Ed è stato dimenticato altresì tutto il personale militare già in congedo. I tumori e le altre gravi malattie» – continua Accade – possono essere stati determinati dalle armi all’uranio impoverito usate dagli alleati».

Altre opposizioni mosse da Accame
Anche dal punto di vista inquirente per Accame la commissione ha lasciato a desiderare: «Non sono stati uditi dalla Commissione i Comandanti delle missioni all’estero. Teatri dove sono state impiegate armi all’uranio impoverito oltreché armi convenzionali di metalli pesanti, e dove sono mancate le misure di protezione. Deposizioni che sarebbero state utili per scoprire se tali Comandanti fossero stati edotti o meno dei pericoli. Gli Stati Uniti – ricorda l’ammiraglio – avevano già adottato misure di protezione in Somalia dal 14 ottobre 1993. Non stati uditi dalla Commissione tutti quei generali che avevano sostenuto la pericolosità dell’uranio impoverito, come il Gen. Osvaldo Bizzari, il Gen. Fernando Termentini, il Gen. Ottogalli e non sono stati ascoltati tutti i professori di medicina che si sono pronunciati circa la pericolosità dell’uranio impoverito, come risulta da numerose sentenze emanate da Tribunali civili e da dichiarazioni pubbliche». Accame e la sua associazione esprimono profondo sconcerto per il contenuto della relazione finale. Le evidenze emerse durante l’attività della Commissione avrebbero dovuto portare ad altre conclusioni.

Tesi della senatrice Cinzia Fontana
Il tema è stato particolarmente discusso. Per la prima volta, la commissione non ha ascoltato solo tecnici ed esperti, ma ha coinvolto nelle indagini anche militari malati e parenti dei militari deceduti. «Le evidenze scientifiche si limitano al campo statistico. Queste audizioni hanno avuto anche un inedito valore umano», racconta la senatrice Pd Cinzia Fontana. Uno dei meriti della commissione di inchiesta è proprio questo. Le pressioni dell’organismo parlamentare hanno portato allo sblocco delle liquidazioni dei benefici dovuti ai militari affetti da gravi patologie invalidanti e alle famiglie di coloro che sono deceduti, previsti ai sensi dell’articolo 603 del codice dell’ordinamento militare. Soprattutto, il lavoro della commissione ha riaperto decine di altri casi che il Comitato di verifica delle cause di servizio aveva rigettato. Su 225 pareri contrari, le vicende dubbie sono circa il 40%. Alla luce dei risultati dell’inchiesta, il parere della commissione è che questi casi sono riaperti.

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